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Dellamorte Dellamore

Regia di Michele Soavi vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Dellamorte Dellamore

di ProfessorAbronsius
9 stelle

Bellissima trasposizione cinematografica del romanzo sclaviano, ricolma di citazioni, cupa ironia e mammelle della Falchi. Più Dylan Dog di Rupert Everett non ce n'è. Ma solo esteticamente. Dyd e Dellamorte appartengono a due universi morali opposti ma complementari. "Darei la vita per essere morto". Voto: 9 Gna

 

La morte che vive

la vita che muore

la morte, la morte

la morte e l'amore.

 

In quel di Buffalora, ridente e immaginario borgo italico pullulante di provinciali e di provincialismo, il becchino Francesco Dellamorte è costretto ogni maledetta notte a far fronte a un problema che sembra inestinguibile: riportare all'altro mondo i cari estinti che continuano a tornare in vita. Solo un proiettile nel cranio può rompere l'incanto dell'eterno ritorno e Dellamorte lo sa perfettamente a differenza dei suoi odiatissimi concittadini. Quando gli si chiede: "Come mai il filo spinato? Di notte entrano?", lui risponde laconico e insofferente: "No... escono, più che altro". Eppure, dietro quella parvenza di laconicità e al di sotto di una superficie di ostentato/ostinato cinismo, Francesco Dellamorte ci racconta attraverso dolenti soliloqui, monologante e disperato, la sua cupissima visione di un mondo dove l'orrore sta tutto nella banalità del quotidiano, nella solitudine che ci accompagna e ci annichilisce giorno dopo giorno, nella crudeltà dei rapporti umani fatti di vuoti comunicativi, di incomprensioni reciproche. Siamo una comunione di solitudini, sembra dirci il nostro Dellamorte, che ormai ha più familiarità con quelli che chiama "ritornanti" piuttosto che con il consorzio umano. Tutta l'insensatezza del mondo che lo circonda si condensa nelle parole, anzi, nella parola di Gnaghi, unico fedelissimo amico ritardato, che non può altro che rispondere alle sue domande con uno "Gna" altrettanto privo di senso.

Chi sono i veri mostri? È questo l'interrogativo che ci pone di continuo Tiziano Sclavi, autore del magnifico romanzo che costituisce il pilastro narrativo della trasposizione di Michele Soavi. La risposta che si dà Francesco Dellamorte è una sola, secca, perentoria e spietata, direttamente suggerita dalla Morte (sic!) che gli ordina di smetterla di uccidere i morti, che appartengono all'oscura signora. Se vuole evitare che i cadaveri tornino in vita, tanto vale che uccida i vivi portandosi avanti col lavoro. È così che Dellamorte decide di sovvertire l'ordine delle cose, di non distinguere più tra il regno dell'oltretomba e quello dei viventi, lasciando che i morti continuino a tornare in vita e dando la caccia ai suoi simili. Diventa il custode del cimitero sociale in cui tutti siamo sepolti e fa strage di civili, perché sono loro i veri mostri, moralmente putrefatti, corrotti non nella carne ma, peggio, nell'anima.

Nemmeno l'amore riesce a garantire una via di fuga, un rifugio, una qualche forma di redenzione. Dellamorte lo trova più volte, personificato dalla stessa figura femminile, e più volte lo perde, gli sfugge e se lo lascia sfuggire. L'opera di Sclavi, come la trasposizione di Soavi, è imperniata su un continuo avvilupparsi e avvicendarsi di amore e di morte che si rincorrono, si avvicinano per un po', si allontanano per l'eternità, perché tanto lo spartiacque dell'esistenza è sempre uno solo:

 

È la morte che cerchi nella notte chiara 

la cerchi per dirle quanto l'ami ancora 

e che sei il suo schiavo, e che lei è sovrana 

la morte, la morte, la morte puttana.

 

Scomodando il sommo Leopardi, è così che vanno le cose per Francesco Dellamorte, figlio di una donna che paradossalmente rispondeva al cognome di Dellamore: Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte / ingenerò la sorte.

Deluso dalla vita, soffocato da un microcosmo che non riesce più a sopportare, Dellamorte preme il pedale del destino e insieme al fido Gnaghi getta la chiave del cimitero e parte alla ricerca del resto del mondo. Ma ciò che scopre è un'illusione da cui scaturisce un'ulteriore, cocente, delusione: il resto del mondo non esiste, è un precipizio senza via di uscita. Anche Gnaghi, a modo suo, scopre questa crudele verità, e quando finalmente riesce a parlare dice solo: "Puoi portarmi a casa, per favore?". Dellamorte lo guarda fisso negli occhi mentre la neve lo avvolge, e alla fine non può che rispondere con uno "Gna" tutt'altro che privo di significato.

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