Regia di Vittorio De Sica vedi scheda film
Della povertà non si è soliti parlare, eppure è sempre lì, davanti ai nostri occhi; di certo la povertà è un argomento sgradito ai potenti, tant'è che all'uscita di questo film accesero le sirene e lo attaccarono: "Se è vero che il male si può combattere anche mettendone a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti - erroneamente - a ritenere che quella di Umberto D. è l'Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria." Scrisse l'allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti; senz'altro gli Andreotti di oggi non hanno alcuna sirena "da accendere", ma sarebbero ben felici se pensassero a come Umberto D. sia ormai cultura di pochi appassionati, e quanto per il resto della popolazione produttiva non significhi assolutamente nulla. "Umberto D. chi? Un nome come tanti..." direbbe una qualsiasi persona fermata per la strada; e alla fine, paradossalmente, quella persona non avrebbe neanche tutti i torti: Umberto Domenico Ferrari, un nome come tanti.
La povertà materiale e spirituale, ecco l'oggetto di quest'opera, eppure non è solo di un uomo, ma di tutta la società italiana che il film parla. Vittorio De Sica racconta tutto questo in maniera sottile, con la maestria di chi riesce a provocare nello stesso istante sia il sorriso che la commozione (si pensi alla scena dell'elemosina, in cui Umberto si sforza di chiedere denaro, ma proprio non ce la fa e ricorre all'aiuto del suo cane...). Eppure ciò che angoscia di più lo spettatore non è tanto l'indigenza del protagonista, quanto l'accendersi della disumanità che la miseria comporta; è come se un fantasma fosse rimasto sempre lì, ben celato dietro le sicurezze del denaro, pronto a mostrarsi all'arrivo degli stenti, spezzando con un grido l'illusione di una società ricca e fraterna; istantaneamente, lo stato dimentica il proprio ex funzionario, gli amici di un tempo gli voltano le spalle; ogni cosa, quando si è sul lastrico, diventa grigia e muta, ergendosi come un mostro immortale e impossibile da combattere. Anche un semplice parco giochi gremito di bambini diventa una tomba. E di tutti gli altri disgraziati, poi, che dire? Neppure da loro una risposta: i ricchi guardano Umberto con disprezzo, mentre gli altri poveri pensano alle proprie disgrazie e non hanno nulla da offrirgli, nemmeno una semplice cortesia svincolata dal denaro. Fa eccezione soltanto la Sonecka Marmèladov di turno, in questo caso rappresentata dalla serva Maria, anch'essa senza nulla da perdere. Imprigionato dalla povertà Umberto D. riesce finalmente a vedere la società per quella che è realmente: un intrecciarsi di uomini soli che lottano per tenersi stretti i propri pochi averi, quella casa che anch'essi hanno paura di perdere - ed ecco che ancor di più, dunque, tutti scacciano il nostro protagonista, rabbrividendo all'idea che egli è capace di rievocare con la propria presenza. La povertà, secondo De Sica e Zavattini, non riesce a generare di per sé alcuna rivolta collettiva, ma tante e profonde sofferenze individuali, ciascuna cieca al dolore del proprio vicino. Questo è quanto, secondo i due autori del 1952, e ancora oggi, con la nostra miseria spazzata maldestramente sotto il tappeto, quest'idea che anima Umberto D. non ha perso di attualità: non è raffigurabile semplicemente come "l'Italia della metà del XX secolo", ma anche come l'Italia del nuovo millennio.
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