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La prima luce

Regia di Vincenzo Marra vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su La prima luce

di alan smithee
4 stelle

FESTIVAL DI VENEZIA 2015 - GIORNATE DEGLI AUTORI

A volte anche il leone arrivista ed arrogante che oggi scala incurante e sprezzante le tappe spesso insidiose della carriera lavorativa, la belva piena di sé e vanesia che a volte alberga nel nostro vivere ed affrontare le occasioni della vita, quelle lavorative che, se cavalcate con destrezza e un certo cinico arrivismo, ci consentono di farci strada dando un senso apparentemente appagante a ciò che intendiamo come satisfattorio – finisce per cedere a quei sentimenti più elementari, ma assai più premianti e primari, che si annidano dietro un affetto familiare, rendendolo elemento indispensabile nel momento in cui questo minaccia di esserci estirpato per sempre.

E’ questo, probabilmente, il sentimento cangiante che anima Marco, la sfumatura caratteriale che lo vede assumere un atteggiamento totalmente nuovo ed insolito nell’ambito della figura che egli ha inciso di sé nella società in cui cerca di distinguersi, trasformando il rampante avvocato dal carattere forte, il capo branco destinato a combattere e a vincere, in un essere umano fraudolentemente spogliato dei veri valori di cui solo ora si accorge dell’esistenza.

Un uomo disperato che troppo tardi si rende conto di come nella vita i valori veri e genuini dell’amore filiale e del legame che può unire un padre al figlio, siano di gran lunga più potenti e genuini dei miraggi ingannevoli che la carriera è in grado di darci con i suoi bagliori entusiasmanti ma effimeri.

Marco, uomo tronfio ed arrogante, troppo sicuro di sé per valutare sintomi di disagio ed insicurezza che albergano nei sentimenti di Martina, viene lasciato di punto in bianco dalla moglie, una cilena succube dell’uomo di successo, e come tale estranea e male adattata in un territorio in cui non riesce a sentirsi integrata: la donna scappa nel suo paese col bambino al seguito, senza dare la possibilità all’uomo di stabilire un accordo, una regola che gli consenta di condividere un affidamento del ragazzino.

Ne scaturisce una dura contesa legale in cui la partita drammaticamente a contendere è la vita di un innocente, sballottato e barattato legalmente, ostaggio di una giustizia che cerca di fare il suo corso, incapace, come è logico che sia, di sostituirsi ai sentimenti primari che sono l’amore e l’affetto che ad un bambino non dovrebbero mai essere negati, da qualunque parte risieda la ragione del contendere.

Si intravede nel film un certo accaloramento che rende esplicita, oltre che drammatica, la familiarità del regista alle linee guida della triste e concitata vicenda, come del resto egli ha pubblicamente raccontato.

Tuttavia e forse proprio a causa di ciò, il film, al di là delle migliori ed accorate intenzioni, finisce per concentrarsi troppo sul lato melodrammatico della vicenda, finendo per indebolire gravemente il tessuto narrativo, che non spiega nessuna evoluzione della vicenda, ma si limita ad analizzarne le conseguenze, ed il vuoto devastante che una decisione unilaterale (irresponsabile? Chi può dirlo, giudicarlo?) che assomiglia ad un rapimento, arriva a creare in quella che era nata come una famiglia tendenzialmente felice e sopraggiunta alle soglie di un guado sicuro.

E nonostante la macchina registica si concentri saggiamente su una interpretazione impegnata ed intensa da parte di Riccardo Scamarcio, davvero lodevole per impegno ed emotività che non si sottrae a falsi pudori e orgoglioso distacco, il film dimostra presto, troppo presto, un fiato corto che lo fa incespicare già poco dopo l’avvio, in un intrigo di sentimentalismi esistenziali che annacquano la vicenda, facendo perdere la lucidità ad una vicenda che forse, proprio per questo, avrebbe avuto bisogno di un narratore più emotivamente estraneo e lucido rispetto al drammatico fulcro della vicenda.

Certo è che le decisioni unilaterali e spesso spietate, egoistiche ed immature di un coniuge, che costringe l’altra (ex) metà del nucleo familiare originario a decisioni e relative conseguenze non negoziabili, costituiscono davvero un dolore irreparabile e devastante per chi è costretto a subire ed accettarne le conseguenze, sottomesso inequivocabilmente da sentenze che la legge, il diritto, e prima ancora l’imperfezione umana, non potranno mai riuscire a risolvere senza traumi né conseguenze drammatiche.

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