Regia di Florestano Vancini vedi scheda film
Vittorio Borghi, giornalista, ex partigiano, ex comunista, in rotta sia con la moglie sia con la giovane amante, torna per qualche giorno nella natia Mantova: qui ritrova una vecchia fiamma e i compagni di lotte, che hanno fatto varia fortuna (uno è assessore, uno possiede un negozio di stoffe, uno fa il metronotte), intravede la contadina che li denunciò ai fascisti, osserva i giovani ballare su ritmi a lui sconosciuti. Resoconto di un fallito pellegrinaggio sentimentale che è al tempo stesso una crisi generazionale. Volenteroso, malinconico, ma eccessivamente programmatico: tutti i personaggi esistono solo in quanto funzioni narrative e intrecciano dialoghi spesso inascoltabili, nessuno ha un’autenticità minimamente paragonabile a quella che avranno i protagonisti di C’eravamo tanto amati. Un film molto più datato di quanto facciano pensare gli anni trascorsi: sicuramente più di La lunga notte del ’43, diretto da Vancini nel 1960. Imbarazzante il finale, dove il nostro ha un raptus, urla “non mi avrete mai!” a non si sa chi, butta all’aria il juke-box e i tavolini di un bar e poi si calma repentinamente, rientrando nei ranghi per l’ultima volta. Lo si può guardare con indulgenza, con affetto, con tenerezza, come alle buone cose di pessimo gusto che adornavano il salotto della nonna: nulla di più.
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