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Un ragazzo d'oro

Regia di Pupi Avati vedi scheda film

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La recensione su Un ragazzo d'oro

di SusannaTrippa
8 stelle

UN RAGAZZO D’ORO di Pupi Avati  –  Una storia di archetipi

 

Gli archetipi sono forze sottili che ‘colorano’ l’ambito in cui ci muoviamo. E i vari protagonisti del film, quasi Carte dei Tarocchi, ce li richiamano.

Non solo loro, gli umani, ma anche le ambientazioni del film sono simboliche.

Milano: città del concreto, del terreno, del quotidiano, della vita ‘reale’ infine. La stessa terapeuta, da cui all’inizio va il Figlio/Scamarcio, si preoccupa che ‘prenda le medicine’ (sempre qualcosa di materico).

Roma: dove scrittura, cinema, atmosfera stessa della città rimandano a qualcosa di più sotterraneo e aereo, l’inconscio, il sogno, il fuggire dalla realtà. E’ anche il luogo della finzione per eccellenza, il cinema.

Quel luogo/tana a Roma – lo studio del Padre – dove poi Scamarcio/Figlio, identificandosi con lui, proprio come lui trascorrerà giorni e notti (e dove io, appena nel film è stato inquadrato, ho riconosciuto la descrizione che Avati, nell’autobiografia, fa del suo studio alla DUEA).

E questa stanza/tana è il crogiuolo, il laboratorio alchemico dove si compie la ‘macerazione’ del Figlio la sua ‘Notte oscura dell’anima’ senza purtroppo la sua uscita dantesca a ‘Riveder le stelle’.

Poi ci sono i luoghi, sempre all’esterno, giardini e parchi – belli, non nello sporco chiassoso della città – degli incontri del Figlio con la ex diva Sharon Stone, musa della Creatività.

Così il protagonista, Scamarcio – bravo – è il Figlio.

Poi c’è un Padre, appena scomparso e molto probabilmente suicidatosi, di cui è sempre presente attraverso il Figlio l’ombra tossica che ha lasciato su di lui. Il Padre non è una vera persona, o comunque non interessa alla storia che viene narrata chi fosse veramente, perché rappresenta unicamente l’ombra tossica del Figlio, cioè come ha influito su di lui.

C’è dunque il dramma di un Figlio che, per riuscire a vivere pienamente cioè strutturando finalmente il proprio Io e trovare il proprio talento (il piano divino della propria vita), deve liberarsi dall’ombra del Padre.

Potrebbe farlo attraverso la Scrittura, che rappresenta appunto il suo talento, quel qualcosa – come per Avati il cinema – che fa realizzare nella terra la sua anima, il suo piano divino.

Solo che, quando finalmente nel momento emozionale di riavvicinamento alla figura del Padre (e questo può portare a sciogliere il grosso nodo che esiste tra loro attraverso il perdono), decide di scrivere il romanzo paterno, in realtà non accetta il fallimento del Padre – che è stato incapace di scrivere il romanzo - ma, identificandosi con lui (anche con cambiamenti fisici e di abbigliamento), cade insieme a lui nell’abisso. E così non si salverà.

Questa fine del Figlio si intuisce quando lui stesso si ferma assorto davanti al precipizio dove il Padre è caduto con l’auto. In quel momento c’è un’immedesimazione molto precisa: si domanda se il padre abbia urlato, reazione che lui avrebbe avuto ed ha di fronte al terrore di una morte psichica.

Il romanzo che scrive, e consegna a pezzi – come un parto faticosissimo - alla ex diva ora editrice

( personificazione della carta dei Tarocchi Imperatrice – figura mitica vincente, qui Creatività/Scrittura l’unica che potrebbe salvarlo), alla fine viene pubblicato e vince addirittura il Premio Strega. Solo che appare come opera del Padre.

In tutta questa fase del film ho sperato che il Figlio se ne assumesse la paternità; fino alla fine ho sperato che urlasse “No maledizione! è mio! l’ho scritto io”.

E invece no. Questo non succede. Il Figlio non ce l’ha fatta. Non è uscito dalla sua Notte Oscura. Non è riuscito a superare le Dodici Fatiche di Ercole. Perché non le ha superate?

Semplicemente perché ha scritto un romanzo meraviglioso, ma non ha preso consapevolezza di questo suo talento. Il donarlo al Padre non è stato un atto generoso, ma ha dimostrato la sua incapacità ad Essere e a Vivere. Il suo dono ha mostrato il suo terrore.

Ecco il perché del titolo – ironico - UN RAGAZZO D’ORO.

Il Figlio muore alla vita, alla sua realizzazione in terra, preferendo restare nell’ospedale psichiatrico per il terrore di affrontare se stesso. Per questo stesso terrore è sprofondato nell’abisso dell’immedesimazione con il Padre.

A nulla vale la visita della musa Scrittura/Sharon Stone, che si fa annunciare come ‘fidanzata’  (perché in realtà è lei la sua vera fidanzata).

Il Figlio oramai non uscirà più da là. Con l’ultima sua frase/ritornello ‘Io e te papà insieme siamo invincibili’ sprofonda irrimediabilmente nell’abisso, avvinghiato al corpo del Padre gettatosi nel dirupo.

                                                                                                                                                          (Susanna Trippa)

 

                                                                                                                     

 

 

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