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Paradise: Hope

Regia di Ulrich Seidl vedi scheda film

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La recensione su Paradise: Hope

di alan smithee
8 stelle

Mentre la mamma Teresa è in vacanza in Kenya a cercare il proprio paradiso, la realizzazione, o almeno una ragione effimera  di vita, nell'amore mercenario e non certo disinteressato di nerboruti maschi locali; mentre la fanatica zia Anna Maria si prodiga nella conversione e persuasione di sempre nuova famiglie verso un Dio muto e glaciale da adorare senza porsi domande,  la giovane teenager Melanie, bionda e sovrappeso non meno della ormai lontana genitrice, si rifugia, non proprio per scelta, in un istituto specializzato nell'opera di dimagrimento dei propri ospiti, tutti minorenni alle prese con la bilancia, con l'irrequietezza di una età dove ancora tutto può sembrare possibile e facile a disporrre, o provare a fare proprio. In questo contesto, la prigione senza sbarre non meno asettica della casa della zia Anna Maria, diviene luogo di accanimento terapeutico contro una obesita' ostinata che si nutre di bulimia accanita e di voracità istintiva fine a se stessa, probabilmente sostenuta dalla noia, da mancanza di interessi interiori e dalla mancanza di valori o principi sani e corroboranti. Intere giornate trascorse impegnati in estenuanti allenamenti che vedono impegnate masse goffe e pachidermiche di carni giovani ma già flaccide, in prati verdi curatissimi separati da siepi disciplinate  con ostinata e geometrica precisione: un insegnante maschio obeso pure lui che controlla senza troppa convinzione e segue alla lettera ed acriticamente un programma di training che procede quasi per inerzia, per contratto, per giustificare le rette salate imposte e pagate dai genitori; che intanto, come Teresa, sono riusciti a parcheggiare i propri pargoli sovrappeso lontano dai propri progetti immediati, in modo da potersi recarse ognuno di loro alla ricerca del proprio paradiso. Troppi paradisi (per dirla secondo Walter Siti), troppa voglia di trasgredire da una realtà piatta dove l'emozione non esiste più, perché tutto è già stato raggiunto ed ottenuto. Siamo nella civiltà del traguardo ormai raggiunto, dove ormai solo la trasgressione può salvare i figli della noia dal tedio e dall'oblio. Fortuna allora che di notte ci si ingozza di nascosto di dolciumi, che si scappa alla ricerca di un bar dove ubriacarsi, per conoscere e farsi abbordare da qualche ragazzo arrapato. Fino a perdere la testa per un anziano ed azzimato medico della clinica, personaggio squallido ed inquietante che tuttavia diventa per Melanie la figura maschile che le è sempre mancata, a cui affidare tutti insieme i ruoli di maschio necessari per colmare le sue ingenue ma tuttavia imprescindibili fantasie adolescenziali. Fino a trovarsi ubriaca e jncosciente raccolta dal medico in un bar, condotta in piena foresta e fatta giacere in un prato di muschio cinto da alberi fitti in sottofondo, adorata come una icina sacra della follia e della decadenza, morale e spirituale. Non meno inquietante e barbaro dei due precedenti capitoli "paradisiaci", il film chiude degnamente una trilogia devastante ma tutt'altro che improbabile o caricaturale, sintesi di un mondo che da sempre Seidl ha inteso denunciare, stigmatizzare, cercando di ricreare situazioni sempre sature e spesso al limite  dell'inverosimile per tentare di scongiurarne la effettiva realizzazione, tutt'altro che lontana od improbabile a verificarsi.

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