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Post Tenebras Lux

Regia di Carlos Reygadas vedi scheda film

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La recensione su Post Tenebras Lux

di EightAndHalf
8 stelle

Cinema sullo sguardo. Non si sa bene come approcciarsi a questo insolito film di Reygadas, una sorta di cinematografico viaggio nei meandri dell'esistenza, ma sicuramente è un punto fisso l'idea dello sguardo. Reygadas simula la vista, la alterna al punto di vista freddo di una cinepresa, sembra far competere due sguardi differenti. La vista prevede i lati sfocati, come se mettesse a fuoco solo ciò che è al centro; il cinema vede tutto, ma forse vede meno di quanto non veda la vista. La vista alla fine trionfa, e viaggia movimentata, come se col discorso metacinematografico il film si fosse autoannulato, come se avesse spedito sé stesso verso un'altra dimensione. Come se la realtà avesse prevalso sul sogno cinematografico. E qualcosa si sblocca in noi, viene modificato il nostro punto di vista, come se quel diavolo caprino che entra nella normalità civile di una casa fosse venuto per aggiustare gli ingranaggi di noi stessi. Ma noi ci siamo modificati, perché la realtà è rimasta com'è, infatti senza pregiudizi e senza preferenze la realtà continua a mostrare tutto, irrefrenabile.
Non c'è linearità narrativa, non c'è dunque trama, ma c'è una sottile linea che attraversa tutto il film. Non c'è inizio, non c'è una fine, il titolo propone l'idea di un ciclo ininterrotto che riordina le nostre coordinate, le riassetta, sia nell'approccio a quello che si presenta inizialmente come un film, sia nell'approccio a quella che si presenta come la 'nostra realtà'. E' difficile (si sarà notato) parlare di questo film, è come quando non si può descrivere un odore, o una sensazione. Ecco, è il primo film irrancontabile, incommentabile. Eppure c'è tanto da dire, tanto su cui riflettere, forse però attraverso discorsi logici e umani che l'insieme dei sensi di fronte al film non ripropongono in maniera altrettanto logica e lineare. Ci si sforza tanto a pensare, in questo film, quando è come se non ci fosse nulla a cui pensare, come se l'autoannullamento metacinematografico si traducesse nel vuoto del pensiero, nello scorrere oggettivo delle immagini, dei suoni, delle pure emozioni. Ci si trova di fronte a un film impalpabile, evanescente, capace di scatenare terrore, inquietudine, sofferenza, tristezza, allegria, tenerezza, ma non nella maniera più definita (se di definizione nelle emozioni si può parlare), ma come un tutt'uno. Così com'è un tutt'uno la realtà assoluta di un film aperto e libero da ogni condizione, ma pressato dall'angosciante trepidare della vita.
Agli occhi dell'uomo (la realtà) e del cinema (lo sguardo fisso e definito) la vita e la morte diventano la stessa cosa, poiché osservati e non vissuti. Ma stiamo comunque guardando noi attraverso la vista e la regia, quindi li viviamo, ma non è che li viviamo, li sentiamo, attraverso il filtro dell'emozione. E' difficile spiegarsi meglio: i contrari (più o meno definiti che il film propone di tanto in tanto, vita-morte, maturità-innocenza, piccolezza-grandezza, luce-tenebra) si contrastano, si sostituiscono, e noi oggettivamente li osserviamo, nel loro scorrere. Percepiamo tutto quello che osserviamo, ma l'assunzione di quella percezione invade anche la nostra realtà, che diventa diversa. E come se Reygadas ricreasse una nuova dimensione, e andasse oltre quella della semplice filiazione visiva. Il film ci parla delle realtà che ci circondano anche mentre lo osserviamo, la sedia, il televisore, la realtà che ci circonda, il buio della sala cinematografica, e "impariamo ad amare qualunque cosa", e riusciamo a capirla prima di una nostra futura catarsi in punto di morte (come avviene al protagonista ricco di rimorsi, come qualunque uomo). E' difficile: c'è sia il prima che il poi, ci sono lo spazio e il tempo. Ci sono, ma sono più separati, almeno nel film. Il cinema rivede la realtà dall'alto, un alto fisico ma anche metafisico, ci scombussola con salti avanti e indietro, in un posto e in un altro, distrugge i due giudizi sintentici aprioristici kantiani e ci immette in un nuovo modo di concepire la realtà. Diventiamo superiori all'uomo, senza muoverci dalla sua altezza.
In "Battaglia nel cielo" la regia imponeva all'osservatore dei limiti, e li liberava secondo la voglia dispotica del regista fino a mostrare una realtà più ampia. Qui è come se Reygadas fosse alla ricerca della definizione, dell'unicità, ma gli vengono a mancare i mezzi per intendere una certa realtà nella maniera normale, umana. Si perde anche lui nell'àpeiron anassimandreo. La vista prevale, ma è la vista di un essere superiore, e permette un dolce naufragare nella complessità molteplice del reale. E viaggiando viaggiando vediamo tutto. La totalità, quella che cercano i filosofi. Ma come risolvere il distacco che impone il cinema? Il cinema, il confine dell'immagine, comporta una differenza fra la dimensione reale e la dimensione empirica, e quando esperiamo del film, facciamo un viaggio negli occhi della creatura (forse il diavolo caprino, un malvagio essere che entra dentro la nostra intimità metafisica) che sale, sale, oltre lo spazio e il tempo, e vede il particolare e l'infimo. Ma noi lo esperiamo, non li viviamo. Incapaci di colmare il vuoto fra cinema e realtà, siamo comunque consapevoli di aver vissuto fuori di noi, di esserci visti da fuori, come se ci fossimo autoosservati attraverso lo sguardo dell'Essere (il diavolo caprino), non ci fossimo compresi, ma avessimo compreso che c'è tanto, tantissimo, e che siamo limitati, straordianariamente limitati.
"Post Tenebras Lux", dopo le tenebre la luce. Sembra quasi un inno di speranza, le tenebre dei nostri limiti a favore della luce dell'arte, che ci fa vedere tutto ma non ci fa 'vedere' (capire) nulla. "Post Lucem Tenebrae", il viaggio nel 'sogno reale' cinematografico finisce, torniamo alla nostra limitatezza. Forse dobbiamo solo godercela.
Reygadas ha avuto un'idea geniale, ma lontana dal cinema, uno sforzo sovrumano per qualcosa di non lineare che solo il suo sguardo riesce a rendere intellegibile, anzi no, emotivamente comprensibile. Ma a quel punto aveva campo libero, è come se potesse mettere in scena tutto, di fronte al caos del Creato (un ritorno al primordiale Caos della mitologia greca?), potesse mettere in gioco qualunque cosa, verso un unico messaggio. E' una preoccupante ascesa al di sopra dell'uomo, che, benché riuscita, dimostra pretese e altezze davvero preoccupanti. Il film è bello, va visto, ma c'è così tanto che sembra uno sfogo, controllato ma incontrollato, insopportabile. Ma forse è perché non accettiamo la realtà..comunque c'è cinema anche più semplice che forse ha fatto capire molto di più. Anche se forse mai così vero.

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