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Gli equilibristi

Regia di Ivano De Matteo vedi scheda film

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La recensione su Gli equilibristi

di nickoftime
6 stelle

Le vie della notorietà sono infinite. Lo dimostra la vicenda di Ivano De Matteo, attore e soprattutto regista lontano da qualsiasi riconoscibilità fino alla vicenda che lo ha coinvolto attraverso il suo penultimo film "La bella gente" rimasto intrappolato - nonostante i premi vinti nei festival del mondo - in un intrigo distributivo che di fatto gli ha impedito una regolare distribuzione nel nostro paese a differenza della Francia dove il film è uscito ricevendo buone critiche. Un torto che si è trasformato in un boomerang pubblicitario impensabile ai tempi della presentazione al Torino Film Festival dove nel 2009, e fuori concorso, il film passò con scarsa presenza di pubblico e poco interesse da parte della critica. Un ritorno di immagine che ha assunto la forma di una nuova produzione salutata da un cammino privilegiato che dopo i riflettori dell'ultimo festival veneziano (Orizzonti) è arrivata in tempo record nelle sale con un buon numero di copie. E se in precedenza la storia di un gruppo familiare alle prese con le proprie ipocrisie nasceva dalla voglia di portare alla luce un fenomeno di mal costume sotterraneo ma radicato in certe frange dell'intellighenzia democratica e progressista, nel caso de "Gli equilibristi" è l'attualità a farla da padrone, con una storia che fotografa il momento di difficoltà di un paese, economica ma anche di valori, attraverso una vicenda di dissoluzione familiare. Succede infatti che dopo un tentativo di convivenza forzata Giulio, impiegato del comune, e la moglie, segretaria in uno studio medico, decidano di separarsi non potendo più sostenere il peso del tradimento da lui consumato con una collega d'ufficio. Al dramma degli affetti subentra quasi subito la difficoltà di far fronte alle spese familiari che Giulio si sforza di assicurare tra mille difficoltà e con la ricerca di un lavoro extra. Un'esistenza ai limiti dell'accettabilità destinata a degenerare quando l'uomo, solo e senza soldi, è costretto a dormire in macchina non potendo sostenere l'affitto di una stanza. Da quel momento la sua vita diventerà un inferno.


Occupandosi di un fenomeno come quello dei nuovi poveri che ha allargato la forbice dell'indigenza anche agli strati medi della popolazione, Di Matteo si confronta con un argomento già affrontato dal cinema italiano da opere come "Hotel paura" (1996) di Renato De Maria e "Cuore sacro" (2005) di Ferzan Ozpetek. In più a far da specchio alla vicenda raccontata sullo schermo la moltitudine di numeri e soluzioni sviscerate dall'informazione massmediatica. Questo per dire che il rischio di accodarsi alla fila del già detto, oppure di farsi ingolosire dal sensazionalismo di un tema alla moda poteva in qualche modo condizionare il lavoro del regista che invece sceglie di lasciare da parte la cronaca per rappresentare il dramma dall'interno, cercando di restituire la scansione emotiva di un problema che toglie all'uomo la propria dignità. Uno svilimento vissuto a compartimenti stagno per la vergogna di confessare un fallimento vissuto con senso di colpa nelle reticenze di Giulio nei confronti della figlia, l'unica comunque che riesca a percepire il dramma del genitore, e nelle frasi di circostanza dei colleghi di lavoro, presenti ma troppo occupati per capire i contorni di un problema capace di cancellare persino le conseguenze emotive relative alla fine del rapporto coniugale, appena accennate all'inizio del film ma sostanzialmente relegate fuori dalla storia, a priori di cui si può fare a meno in tempi così grami.
Strutturato come una sorta di calvario in cui le situazioni in cui Giulio si viene a trovare diventano altrettante stazioni di una via dolorosa "Gli equilibristi" ci porta nel cuore di una città multi etnica e popolare, dominata da nuove gerarchie sociali - "i nuovi arrivati" diventeranno il lasciapassare indispensabile per continuare a sperare - e da rapporti quasi esclusivamente mercantili come sono la maggior parte di quelli che caratterizzano l'esperienza di Giulio (anche negli incontri con la moglie non si fa altro che parlare della necessità di avere più denaro). 

Di Matteo gira privilegiando dialoghi e primi piani, preoccupandosi di rendere fluida la narrazione con dolly e carrellate che se da una parte ammorbidiscono le asperità dei contenuti in funzione di un estetica più vicina al cinema di consumo, dall'altra stabiliscono piccoli momenti di pausa in cui la storia sembra riprendere fiato e con lui il protagonista sottoposto ad un vero e proprio assedio psicologico e materiale sottolineato da immagini che c'è lo mostrano mentre si allontana con porte, finestre, cassonetti e serrande che si abbassano o si chiudono a suggellare l'uscita di scena da una vita che ha smesso di appartenergli. Ma la forza ed anche il limite del film sta nella bravura di Valerio Mastandrea capace di dare spessore al personaggio prosciugandolo dalla retorica del martirio e della commiserazione inevitabilmente stimolata dai sacrifici che Giulio mette in atto per trovare i soldi necessari al sostentamento della famiglia. Una valore aggiunto a cui il pur bravo Di Matteo si affida troppo finendo per trascurare gli altri attori ed i loro personaggi confinati all'interno di una caratterizzazione embrionale od addirittura stereotipata. Non mancano i clichè - l'extracomunitario buono e samaritano - e le metafore usa e getta - quella dell'uomo lupo all'uomo presente nella sequenza dei due diseredati che si picchiano a sangue - così come una certa semplificazione derivata dalla scelta di escludere le cause per mostrare solamente le conseguenze della crisi, ma alla fine si esce dalla sala con un groppo nello stomaco segno che il film non lascia indifferenti.
(pubblicata su ondacinema.it)

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