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Les Misérables

Regia di Tom Hooper vedi scheda film

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La recensione su Les Misérables

di LorCio
10 stelle

Gustave Flaubert non aveva molta stima degli scrittori appartenenti alla generazione precedente alla sua, non individuava fondamentalmente nessun maestro con la parziale eccezione di Victor Hugo. Del grande letterato francese, Flaubert non apprezzava lo stile (sosteneva che scrivesse male) ma non poteva non riconoscergli una dote essenziale: il respiro. Che respiro, I miserabili, ma non sono certo il primo a dirlo, e non è questa la sede per addentrarsi in un’analisi del suo romanzo più celebre. Non furono sicuramente degli sprovveduti Claude-Michel Schönberg ed Alain Boublil quando, nel 1980, decisero di trasporre in musical il romanzone, long seller da almeno due secoli: il successo fu immediato, Cameron Mackintosh lo adattò in inglese (lingua ufficiale del genere) e da circa trent’anni è sulla cresta dell’onda.

 

Dal musical più fortunato della storia recente non si poteva non trarre anche una versione cinematografica, che arriva dopo decenni di gestazione con la regia di Tom Hopper, premio Oscar per Il discorso del re. È probabilmente lui uno dei valori aggiunti del film ed è quasi sicuramente merito suo se non mi esimo dal definire Les Misérables un capolavoro. Sembrerebbe facile, sulla carta, trasferire un grosso successo teatrale sul grande schermo, specialmente considerando l’alto livello delle canzoni e la struttura ben oliata, ma potrei fare svariati esempi di film tratti da musical poco riusciti (tra i recenti, Evita, Il fantasma dell’opera e Nine su tutti).

 

Hopper non sposta semplicemente l’azione al cinema, non cede alla trappola del teatro in scatola: per quanto la natura teatrale dell’opera si senta in qualche situazione (inevitabilmente, direi), Hopper fa del vero cinema, muove la macchina con una fluidità avvolgente e un’eleganza affascinante proponendo riprese spettacolari (funzionali a sottolineare l’epica del racconto) e intimi e toccanti primi piani (gli assoli). Rapsodia popolare che abbraccia un decisivo periodo della Francia post rivoluzionaria, è una storia stratificata sostanzialmente suddivisa in tre blocchi narrativi, legati da due fili: l’ostinata e ventennale caccia al bandito buono Jean Valjean (diciannove anni di detenzione per aver rubato un tozzo di pane per sfamare il nipote) da parte del poliziotto Javert (che considera se stesso uno strumento della legge, se non l’espressione massima della legge stessa) e l’eterna lotta degli ultimi contro il potere soverchiatore (che siano carcerati sfruttati contro poliziotti arroganti, povere criste alle prese con varie sfighe, giovani rivoltosi di vaghe idee protosocialiste).

 

Si può contestare l’inadeguatezza degli attori chiamati ad essere cantanti per due ore e mezza (rarissimi i dialoghi parlati), ma è anche vero che l’imperfezione vocale conferisce una maggiore umanità a personaggi tanto mitici quanto vicini al nostro tempo (d’altronde il respiro di Hugo comprendeva anche l’universalità del messaggio). Hugh Jackman è sorprendentemente esimio e trova il ruolo della vita; Russell Crowe ha evidenti difficoltà canore ma dà al suo Javert la giusta rabbia; Anne Hathaway recita in funzione di un Oscar con evidente coinvolgimento (sua è la canzone più famosa, I Dreamed a Dream, un’interpretazione da brividi); Sasha Baron Cohen e Helena Bonham Carter portano un pizzico di Sweeney Todd (l’ultimo musical di un certo interesse) e hanno le parentesi più divertenti. Ma gli applausi a scena aperta e lacrime copiose sono per il piccolo Daniel Huttleson, meraviglioso e metaforico Gavroche, dal destino ineluttabile, e per i cori di Do You Hear the People Sing? evocativi, potenti, assoluti.

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