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Ombre malesi

Regia di William Wyler vedi scheda film

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La recensione su Ombre malesi

di spopola
10 stelle

Un ineguagliabile esempio di quell’artigianato che rasenta(va) i vertici dell’arte e uno dei più affascinanti noir della storia del cinema tutto giocato sui chiaroscuri di un bianco e nero da brividi. La palpitazione emozionale degli eventi e il crescendo parossistico del racconto, fanno il resto insieme alla sublime prova della Davis.

Il plot narrativo è ancora una volta dovuto alla prolifica creatività di W. Somerset Maugham, scrittore all’epoca di grande successo, frequentemente “saccheggiato” (in senso positivo, si intende) dal cinema per la romantica complessità travolgentemente ambigua delle sue trame, spesso cariche di inquietanti riferimenti erotici e di richiami esotici particolarmente di moda nel periodo e per questo capaci di stimolare la fantasia e l’immaginazione di un pubblico alla ricerca di “forti emozioni”, da “Pioggia” a “Schiavo d’amore”, da “Il vagabondo dell’isola” a “La luna e sei soldi” (biografia romanzata e “indiretta” della vita di Gauguin), da “Il filo del rasoio” a “Passioni”, solo per citare le incursioni più famose (e più frequenti, visto che da alcuni di questi titoli Hollywood ha realizzato negli anni più di una riduzione in immagini: ben tre per “Schiavo d’amore”, interpretato dalla Davis e Howard nell’edizione più significativamente coinvolgente, e poi “rifatto” in due scialbe riproposte poco pregnanti, con il contributo non particolarmente incisivo sia della Parker che della Novak; ancora tre per “Pioggia” – affidate rispettivamente all’estro istrionico prima di Gloria Swanson, e poi della Crawford e della Hayworth; due per “Il vagabondo dell’sola” la prima per il grande Laughton e la seconda con il titolo de “Il grande flagello” per Robert Newton, e ”Il filo del rasoio”: quella “epocale” con Tyron Power e quella più recentemente “dimenticabile” con Bill Murray). Questo “The letters” (“Ombre malesi” per il mercato italiano, un altro soggetto più volte preso in prestito dagli sceneggiatori - prima e dopo - e che sarà “rifatto” nel 1947 con risultati meno eclatanti da Vincent Sherman con il titolo de “Le donne erano sole” e l’interpretazione analogamente inquietante – ma assolutamente non paragonabile a quella della Davis - di Ann Sheridan) tratto da un racconto dello scrittore poi trasformato in pièce teatrale (come spesso accadeva in quei tempi), rimane senz’altro una delle più attendibili, affascinanti e riuscite “trascrizioni da” (probabilmente il capolavoro assoluto) e il merito è ascrivibile in pieno alla felice mano “creativa” di William Wyler, qui particolarmente ispirata, un regista capace come pochissimi altri di “inventare” la giusta corrispondenza per ogni immagine e sequenza, giocando sui ritmi del montaggio e sui dettagli, e di adattarsi con “perfetta sintonia” con la poetica differenziata degli autori letterari di riferimento (basta dare una scorsa alla sua filmografia per rendersi conto di questa eccezionale evidenza), trovando l’esatta consonanza dinamica col narrato, anche in storie - come questa - quasi tutte girate in interni, che riusciva ad impreziosire con sorprendenti movimenti di macchina, mai “virtusisticamente fini a se stessi” ma sempre necessari e finalizzati alla resa dello “scavo drammatico” delle psicologie sfaccettate dei personaggi (qui particolarmente sconvolgente quello operato sulla personalità della protagonista, una Bette Davis superlativa e inarrivabile che “sa giocare di rimessa” ed è grandiosa e irraggiungibile come al solito con una recitazione da manuale che dovrebbe essere studiata con la lente di ingrandimento per coglierne davvero tutte le sfumature e i risvolti drammatici nascosti in ogni sguardo o movimento che fanno emergere le contraddizioni più segrete del perbenismo fasullo di una facciata che non corrisponde all'essenza dell'anima e i lati oscuri più controversi della sua ossessione amorosa che inevitabilmente deraglierà in tragedia dentro l'ambiente troppo chiuso di quella colonia tropicale ai confini del mondo dove si trova reclusa). “Tradito” nel finale per le implacabili regole del codice Hays, (l’originale si chiudeva con maggiore amarezza nell’inevitabile trionfo del cinismo ipocrita interessato sempre e comunque a salvare le apparenze) ma sceneggiato ottimamente da Howard Kock che riesce in ogni caso a dare una sua inquieta soluzione anche nella costrizione delle modificazioni narrative dell’epilogo imposto, che non disturba e risulta persino accettabile e tragicamente coinvolgente, se si esclude la brevissima sequenza troppo accomodatamente posticcia dell’identificazione da parte di due poliziotti della “vendicatrice” e del suo sicario, il film risulta ancora oggi un irraggiungibile esempio di quell’artigianato artistico di squisita e preziosa fattura che rasentava i vertici dell’arte del quale purtroppo da tempo si è perso traccia e stampo. William Wyler ha diretto insomma uno dei più affascinanti noir della storia del cinema, un autentico gioiello frutto di un talento registico di eccezionale levatura che ha saputo “stimolare” al meglio ogni collaboratore, con una cura maniacale dei dettagli avvertibile in ogni inquadratura e una messa-in-scena accuratamente sinistra tutta giocata sui chiaroscuri di un bianco e nero da brividi (quella luce della luna che “gioca” con le nuvole, nascondendo e scoprendo particolari, quelle tende che filtrano fette di luce e rendono minacciosi persino gli angoli e gli oggetti degli interni, facendoci percepire anche sensorialmente il “sospetto” e la paura”, quelle foglie "frementi", umide e fruscianti capaci da sole di terrorizzarci solo se “sfiorate” da un movimento avvolgente che "anticipa" la palpitazione emozionale degli eventi in un crescendo parossistico che non lascia un attimo di tregua), tutti elementi utilizzati in maniera impeccabile che rappresentano la conferma evidente del talento superiore di questo “uomo” nato per il cinema. Le sequenze da antologia sono moltissime, anche i semplici “indugi” sulla ossessiva ripetitività maniacale dei gesti che la Davis compie con l’uncinetto per “calmare i nervi” o i primi piani sui suoi occhi inquieti e cangianti (“Bette Davis Eyes” come citavano i versi di una successiva canzone che rese famosa Kim Karnes….), ma non posiamo dimenticare la carrellata di apertura capace con pochi tratti di avvicinamento, di rendere tangibile precorrendola, l’angosciosa attesa dell’inevitabile tragedia, (riproposta quasi specularmente nel finale con un movimento in qualche modo inverso, ma molto più dettagliato e denso di particolari "descrittivi" come quel lento soffermarsi su quello scialle di pizzo mosso dalla brezza) o la stessa realizzazione “visiva” del “delitto” raccontata da un angolazione davvero insolita e la successiva “rievocazione” dell’avvenimento concentrata solo sull’attrice e “privata” della rivisitazione in flash-beck degli eventi, soluzione scontatamente ovvia alla quale sarebbero invece ricorsi registi meno inventivi e geniali. Il dvd attualmente in commercio, ci permette per altro di riappropriarci del finale alternativo girato ma poi scartato, che presenta pochissime variazioni per quanto riguarda gli spostamenti di macchina, ma risulta meno drammaticizzato e più “normalizzato”(certamente meno incisivo), e di apprezzare così la felice scelta del regista che costruisce proprio in quella scena resa “definitiva” uno dei momenti più fortemente significativi e "magici" difficilmente obliabili di tutta l’opera, quell’”Amo ancora l’uomo che ho ucciso” esclamato con una intensità straziata da una Davis ormai incapace di lottare con la sua passione e consapevole della impossibilità del rimedio consolatorio che tenta invano di "acchiappare" per continuare a vivere che – lo ripeto - offre qui una volta di più la prova evidente della ineguagliabile magnificenza di un'arte interpretativa fuori dal comune, capace di alternare indifferenza e calcolo, isteria e accettazione, rassegnazione e paura con passaggi impercettibilmente dolorosi, quasi degli scarti inavvertibili, sufficienti per creare brividi e malessere. La fotografia di Toni Gaudio, magnetica e angosciante al tempo stesso, tutta orchestrata su tagli violentemente estremizzati, quasi espressionisti, è davvero da oscar, come indimenticabile risulta l’ossessivo score musicale di Max Steiner strutturato su due sole note che non danno tregua, martellanti e avvolgenti, che si insinuano prepotenti nel nostro immaginario rendendoci consapevolmente partecipi degli eventi. E poi c’è Bette… Bette e ancora Bette, la grandiosa, immensa, insuperabile Davis, (e non possiamo che magnificarla all'infinito perchè il suo contributo è determinante e assoluto)indimenticabile “perla” incastonata in un diadema prezioso che l’usura del tempo non riuscirà a scalfire mai.

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