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La parte degli angeli

Regia di Ken Loach vedi scheda film

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La recensione su La parte degli angeli

di giancarlo visitilli
6 stelle

Lo si riconosce subito, sin dalle prime inquadrature, dalle primissime battute e dai movimenti di macchina: è il regista degli uomini e delle donne al passo sempre con qualche crisi. Fra tutte, sin dai primissimi suoi film, c’entra sempre la crisi economica. Pertanto, il suo cinema, è sempre di moda, al passo con quelli che al cinema ci vanno e si vedono proiettati nelle sue storie e sbattuti sul grande schermo.

Quanti di noi sono come Robbie, il ragazzo di Glasgow, che cerca di liberarsi della faida famigliare che lo tiene prigioniero? Un giorno, entra di nascosto nel reparto maternità dell'ospedale per far visita a Leonie, la sua giovane ragazza, e prendere in braccio per la prima volta Luke, il figlio appena nato, Robbie è sopraffatto dall'emozione e giura che Luke non avrà la vita di privazioni che ha vissuto lui. Mentre sconta una condanna a svolgere lavori socialmente utili, Robbie conosce Rhino, Albert e Mo, per i quali un impiego è, come per lui, poco più di un sogno remoto. Robbie non immagina certo che dandosi all'alcool le loro vite cambieranno. E non scadenti vini liquorosi, ma i migliori whisky di malto del mondo. Che ne sarà di Robbie? Lo aspettano altre vendette e violenze o un nuovo futuro? La sua vita, ma anche quella dei suoi compagni, assomiglia a quella di ogni uomo e donna oggi in un qualsiasi paese occidentale: è sospesa, precaria, in bilico, proprio come quella degli angeli. Con la differenza che loro dicono di essere in cielo.

Una fiaba. Una triste fiaba è questo film di Loach, in cui le vite dei personaggi evaporano, tentando di elevarsi, dalla triste e quotidiana realtà. Infatti, la Parte degli angeli, è definita proprio quella piccola percentuale di whisky che evapora, durante gli spostamenti dalla distilleria al bicchiere. Si tratta di una sorta di passaggio, che poi nel film si realizza più volte, dal dramma al sorriso. Ad accompagnare il cammino di anche questi nuovi e, più divertenti almeno questa volta, personaggi è sempre la stessa coerenza politica, prima, che poi si rende palese nel suo cinema, che ha sempre contraddistinto questo grandioso regista, insieme al suo fido sceneggiatore, Paul Laverty. Il sottoproletariato non ha mai smesso di essere l’occupazione e la preoccupazione di questi due scrittori, innanzitutto. Anzi, in questo film, pur non raggiungendo le stesse corde come in altri, uno su tutti My name is Joe, è presente sempre una certa ruvidezza, una reale rozzezza, che rendono le storie inconfondibilmente interessanti, anche per quell’umorismo, tipicamente britannico. Di queste caratteristiche il regista si serve per mettere sotto i riflettori la precarietà esistenziale, la violenza urbana ch’è sempre causa e conseguenza di disgregazione e povertà sociale. Loach è abilissimo a dirigere i suoi sempre straordinari attori, che siano protagonisti o no, poco importa. Non sarà un caso se anche un film sufficiente, rispetto a tanti altri suoi, si sia meritato il Premio della giuria all’ultimo Festival di Cannes.

Impressiona, anche questa volta, come la storia del giovane protagonista dell’ennesimo film del cineasta inglese assomigli tanto a quella di qualsiasi precario italiano, a prescindere se di Taranto o di Torino. Si tratta di uomini e donne che decidono di lottare e di cambiare. E, come sempre, Loach sta accanto a loro, dalla parte dei più deboli senza retorica né pietismo, sentendosi anche lui un angelo caduto in volo. Ma con i piedi ben saldi in terra.

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