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4:44 L'ultimo giorno sulla Terra

Regia di Abel Ferrara vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su 4:44 L'ultimo giorno sulla Terra

di ed wood
8 stelle

Guardando l’incontrollata proliferazione di immagini che caratterizza questo film, viene in mente la lezione di un grande regista italiano che oggi si tende a dimenticare. Non è quasi mai considerato fra gli autori più influenti, eppure le sue intuizioni, la sua idea di cinema e di mondo erano di decenni in anticipo sui tempi. Sto parlando di Marco Ferreri, e in particolare del suo capolavoro “Dillinger è morto”. In quel film si registrava l’estinzione del senso, della morale, dell’Uomo stesso, soffocato e reificato dal vuoto di un ambiente domestico dominato da immagini e feticci: la televisione, la radio, i quadri, i giornali, le diapositive, fino a utensili qualunque come una pistola o come la propria moglie componevano la sostanza di un mondo di oggetti, di rappresentazioni, uno spazio-tempo dove nulla può possedere lo definizione di “reale”. Praticamente la cosiddetta “realtà virtuale”, colta nella sua accezione più profonda e filosofica, ma al contempo più concreta e quotidiana. Il mondo in cui si muoveva l’ingegner Piccoli nel film di Ferreri è lo stesso in cui arrancano Cisco (un Dafoe notevole, come sempre) e la sua compagna Skye in questa reinvenzione del cinema catastrofico firmata Abel Ferrara. Lo spazio diegetico del film è letteralmente costruito da rappresentazioni mediatiche, tradizionali (TV, musica rock, dipinti, fotografie, diari) e interattive (il software Skype che permette videochiamate a distanza globale). Nel caotico susseguirsi di considerazioni televisive riguardo all’imminente fine del mondo (effetto di una vacua cultura dell’ “opinionismo” che non si placa nemmeno a poche ore dall’estinzione del genere umano, o forse, chissà, si tratta di immagini registrate da un passato a cui si vuole rimanere aggrappati, nonostante tutto), emerge un santone che afferma come il mondo che vediamo sia solo una creazione di immagini “seminate” dalla nostra mente: quasi una dichiarazione della poetica del film, almeno della prima parte. Nella seconda, invece, una volta settati i parametri di questo mondo “mediato”, emerge il Ferrare più dolente, problematico, maledetto, visionario. Temi di stampo cristiano, come il perdono e la redenzione, o filosofico, come la scelta e il destino, si accompagnano alla rappresentazione radicale del sesso e della droga, sempre sulla scorta di un umanesimo nudo e struggente, che esclude ogni deriva cinica e perversa. Ferrara contempla l’umanità nel momento in cui sta per pagare le conseguenze dei propri errori, ma lo fa con una infinita pietas: quando vede un uomo gettarsi dal balcone, Cisco reagisce come se fosse ancora possibile un domani. A poche ore dalla fine, c’è ancora tempo per una scenata di gelosia, per una bevuta con amici, per un colloquio affettuoso coi propri familiari. Ma nell’era dell’altra tecnologia, anche i propri cari possono essere ridotti ad immagine a bassa fedeltà (un volto ripreso dalla webcam di Skype) o a feticcio inorganico (toccante il momento il cui il piccolo Chung bacia il netbook da cui aveva appena conversato coi suoi familiari vietnamiti). E allora il bisogno del contatto fisico, della carne, si fa ancora più impellente: Ferrara filma il primo atto carnale di Cisco e Skye dando un grande risalto alle superfici dei corpi. Stilisticamente, il film alterna l’iperrealismo post-cassavetesiano di molte sequenze a carrelli circolari di medio raggio, grazie ai quali si palesa quel senso “ferreriano” di isolamento della figura umana in uno spazio riempito da immagini, suoni e oggetti. L’altra figura ricorrente è la sovraimpressione, unico modo possibile per far coesistere l’intero mondo in una inquadratura. Dove delude invece Ferrara, impedendo al film di qualificarsi come capolavoro, è nell’impasto tematico, che risulta sovraccarico e irrisolto: l’ecologia, le religioni (il cristianesimo, il buddismo, il rock’n’roll, il culto dell’idolo televisivo: bellissimo il “dialogo” fra Dafoe e il Dalai Lama), la tecnologia, i mass media, i vizi e le virtù umane, l’arte (suggestivi, ma non molto originali le riprese dello work-in-progress pittorico di Skye), gli affetti, le paure e altro ancora si accavallano in un mix di suggestioni non sempre esposte con lucidità. Resta tuttavia una intensa visione apocalittica sulla fine dell’Uomo, culminata in un finale di puro abbandono mistico (lo schermo che diventa bianco e la voce di Skye che evoca un aldilà), quasi un trip lisergico che evoca in un solo momento l’apoteosi della mente umana mentre collassa come una supernova: come afferma l’ennesima voce televisiva, nel momento della morte ciascuno può visualizzare tutti i volti che popolano il mondo. Se le idee di trasparenza del “reale”, di ubiquità dello spirito (o della materia-cinema, che è la stessa cosa), di un pensiero che “semina immagini” si accostano a quelle di altre cine-esperienze contemplative contemporanee, il fatto che queste stesse ultime immagini che Cisco visualizza non siano altro che reportage televisivi (quindi, nulla di “vissuto” in prima persona) riconduce la filosofia del film al magistero “feticista” di Ferreri. A proposito, nel cast figura niente meno che Anita Pallenberg, un’attrice che nella sua carriera ha fatto pochissimi film, fra cui, casualmente, “Dillinger è morto”.

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