Espandi menu
cerca
My Beautiful Laundrette. Lavanderia a gettone

Regia di Stephen Frears vedi scheda film

Recensioni

L'autore

Florauro

Florauro

Iscritto dal 21 luglio 2018 Vai al suo profilo
  • Seguaci -
  • Post -
  • Recensioni 2
  • Playlist -
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi
Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su My Beautiful Laundrette. Lavanderia a gettone

di Florauro
10 stelle

Il film che ci voleva. Preveggente e maleducato, ironico e faticoso come la vita. C'è tutto: gli scontri etnici, l'ansia di riscatto, l'oppressione neoliberista, la sessualità complicata, l'irriverenza e un filo di seducente malinconia.

Daniel Day-Lewis, Gordon Warnecke

My Beautiful Laundrette. Lavanderia a gettone (1985): Daniel Day-Lewis, Gordon Warnecke

Un pomeriggio del 1985, al cinema Eliseo di Milano. In cartellone un titolo bislacco, My beautiful laundrette, intraducibile in italiano se non a costo d'imbarazzanti associazioni: "La mia bella lavanderia". La trama: l'anglo-pachistano Omar (Gordon Warnecke) è spinto dal padre, intellettuale socialista alcolizzato (Roshan Seth, il Nehru di Gandhi e Haroon de Il Budda delle periferie), a lavorare per qualche tempo presso lo zio Nasser (Saeed Jaffrey), ricco proprietario d'imprese lecite e illecite, con moglie trascurata e amante inglese (una scintillante Shirley Ann-Field). L'intraprendente giovanotto rileva una lavanderia dello zio e assume Johnny, un ex-amico d'infanzia, biondo, sfaccendato, punk, omosessuale e, in passato, fascista e razzista. Ne diviene l'amante e, assieme a lui, trasforma il negozio in locale di lusso. In mezzo, traffici di droga, scontri fra lavoratori e disoccupati, inglesi e immigrati, colori acidi e catapecchie rancide, luci al neon e valzer di Waldteufel, alcool a fiumi e odore d'appretto, rovistio di vesti dismesse, binari assordanti, vie di fuga e angoli in penombra. Locandina altrettanto indovinata: due ragazzi belli e strani, tra i più belli (e strani) mai visti, uno bianco e nordico, l'altro bruno e asiatico, che fissano l'obiettivo con timida strafottenza. Una coppia irregolare e interetnica nella Londra di Margaret Thatcher.

Ma chi interpretava Johnny? Nientemeno che un tormentato, irresistibile Daniel Day-Lewis. E nessuno, fra gli sparuti spettatori dell'Eliseo nel 1985, sapeva di trovarsi di fronte alla riuscita performance del più grande attore degli ultimi decenni. Nell'asciutta possanza dei suoi 27 anni (ma ne dimostrava meno), il futuro sir DDL si muoveva con una spontaneità talmente viscerale da sconvolgere. Ma, d'altronde, il co-protagonista Warnecke non era da meno e in una intervista rilasciata al "Guardian" nel 2015 avrebbe ricordato con molta vivezza quel partner così intenso e impegnativo, ma anche lieve ("un vero gentleman"). Warnecke, tuttora in attività - la sua ultima prova è stata presentata a Milano, nel corso del Festival Mix, il 24 giugno scorso - avrebbe meritato maggior fortuna artistica: nato a Londra da madre indoguyanese e padre tedesco (un Ayeye Brazov d'Oltremanica...), risulta credibile come pachistano e regge egregiamente il confronto con l'illustre collega. Forse quel suo personaggio, così trasgressivo e imprevisto, era troppo in anticipo sui tempi, anche per la disinvolta Europa. My beautiful laundrette era mercuriale e non concedeva nulla alla furbizia. Vi si trovava solo lo schietto, ribaldo sperimentalismo dei 16 mm. - venne concepito per la TV come un serial sulla falsariga de Il Padrino - e la pirotecnia di due artisti: Hanif Kureishi alla sceneggiatura, Stephen Frears alla regia.

La pellicola è indubbiamente figlia del suo tempo, a tratti datata, anzi, situazionista; eppure non invecchia. MBL è uno di quei film che si conficca nel cuore e non ne esce più. Puoi dimenticarlo, poi un bel giorno, o più probabilmente un pomeriggio - un altro - lo ritrovi lì, intatto, a riprendere il filo del discorso. Come tutti i classici, piove dove capita, con la precarietà dell'esistenza, ma sempre autentico, graffiante.

La Londra anni '80 anticipava l'Italia del terzo millennio. Il suburbio rimane inchiodato a un'atemporalità senza scampo. Il resto è oggi: la politica truce e fosca, l'irresolutezza dei progressisti - il padre di Omar è forse il personaggio più patetico del film, con la sua cultura insipiente e la delusione poco comprensiva verso la working class; questione (anche) di linguaggio, lo tengano presente soprattutto gli insegnanti -, i nuovi "fascisti", in realtà dei poveri sciagurati, il fallimento del melting pot e la globalizzazione che esclude i singoli privilegiando il branco ("Non tagliarti fuori dalla tua gente, perché nessun altro ti vuole davvero" è il monito doloroso rivolto a Johnny da uno dei suoi ex-compagni di scorribande). Poi la guerra, immancabile: con gli extracomunitari, presi all'ingrosso, ma pure all'interno delle stesse comunità, che di comune hanno solo i bisogni materiali, o esigenze, o delinquenza.

Tornare alle origini, come vorrebbe il padre di Omar, non si può, sono bruciate e... su quelle ceneri, s'è innestata la malapianta del fondamentalismo. "Il Pakistan di oggi è stato fagocitato dalla religione", gli replica uno sconsolato Nasser. Nell'originale inglese, il verbo è ben altrimenti crudo: "sodomizzato". E la questione si ripresenta, sempre uguale: quando le religioni, nate per liberare l'uomo, hanno finito per incatenarlo? Chi le ha sequestrate? L'istituzione? Il potere? I preti o gli imam o i rabbini, tutti rigorosamente maschi? La nostra stessa prepotenza? La paura, il denaro? Se il peccato di Sodoma è il rifiuto dell'altro, non si ricompatta tutto in un unico, terribile atto d'accusa?

Del resto, il mondo di MBL è senza Dio, ma certamente non più libero: semmai liberista; un ammonticchiare disordinato di piccole soddisfazioni, un vivere alla giornata afferrando un tragico attimo, privo di gioia. "La società non esiste. Esistono gli individui e io voglio cambiare le loro anime" proclamava la Lady di Ferro, ma cambiare l'anima è impossibile senza mettere in cortocircuito la stessa umanità. La quale, priva di riferimenti sicuri, trova sfogo nella violenza, nelle velleità o nella mitizzazione d'un mondo manicheo, esaltato, simmetricamente diviso tra bene e male. Liberismo e fondamentalismi - politici, religiosi - sono frutti d'un unico ceppo.

Questa filosofia, o meglio, idolatria del denaro - che mai come qui assume connotati drammatici, al contrario di quanto frainteso da malaccorti osservatori - viene esplicitata da Salim (Dennis Branche), l'ambiguo e brutale cugino di Omar e, fra tutti, il più apertamente mafioso, il quale riserva al ragazzo poche frasi taglienti: "Tuo padre era un intellettuale di spicco, in Pakistan. Tutti quei libri scritti e letti. I politici che andavano a cercarlo. Era intimo amico di Bhutto. Ma in Inghilterra senza soldi non siamo niente".

Però la vita è anche un eterno passeggiare; si può sorridere fra le macerie, e infischiarsene, perfino commuoversi. L'amoralità dei protagonisti - di Omar, soprattutto - è forse dettata da autodifesa. Egli incarna un coacervo d'irriverenti contraddizioni: non bianco ma in alto nella scala sociale, tenero e appassionato (nell'intimità l'iniziativa spetta sempre a Johnny e mai a lui: altro sovvertimento degli stereotipi, che assegnano il ruolo predominante al non-occidentale) ma pure arrampicatore, rancoroso e dispotico. Concreto fino al cinismo e al tempo stesso entusiasta e melanconico, scherzoso e irrisolto. Con qualche leziosità di troppo: è il tipo da "mio dolce amore", uno che ti guarda da sotto in su. Lo si perdona, Omar, perché non ha scelta. All'adultità è costretto benché, come osservato da un critico dell'epoca, Leonardo Autera, unisca "all'astuzia dell'arrivista le tensioni e i sogni di un poeta". Ma nell'oclocrazia non c'è spazio per i poeti e al Nostro non resta che riversare tutta la poesia su Johnny. Segretamente, si capisce, in un alternarsi di sarcasmo e ipocrisia: mentre infatti la famiglia di Omar, chiamato amichevolmente (?) Omo, briga per combinargli un matrimonio con Tania (Rita Wolf), volitiva figlia di Nasser, lo zio, e perfino lo svaporato padre, nelle loro chiacchiere non mancano di additare lui e Johnny con un termine non esattamente corretto, "buggers" - equivalente al nostro "buggerare" -, assente nella più castigata versione italiana e che oggi farebbe gridare all'omofobia gli apologeti dell'equanimità a buon mercato. Ma MBL non è equo e, proprio perché così aderente alla realtà, rifugge i compromessi e gli accomodamenti della letteratura edificante, o letteratura tout court. Certo, i due rimangono uniti, magari sopportandosi, come sembra suggerire il finale, volutamente sottotono, che li ritrae sorridenti in un momento di lasciva banalità. Paiono già adulti, nel tratto se non nel fisico, due zitelloni gay che hanno imparato chissà come a barcamenarsi. D'altro lato questa intesa pare sempre sul crinale d'un burrone, per la crudeltà del mondo (non sono abbastanza cattivi), disagio esistenziale, finta virilità, mancanza di prospettiva, fragile dipendenza. Se non si teme di riconoscere, umilmente, i nostri abissi di finitudine, è facile identificarsi nei due amici, che nei non rari momenti di tensione sanno sempre sfoderare una risata sopra le righe. Non esistono, in MBL, personaggi del tutto buoni né completamente malvagi; ognuno ha le sue miserie e i suoi picchi di lirismo, pur nello squallore circostante. Ed è questo il fascino maggiore del film, lo stare al passo col disarmato fardello della vita.

Tuttavia, nella loro solitudine totale, o totalizzante, le più arrischiate risultano le donne, in particolare Tania, sposa mancata di Omo, riuscito miscuglio fra tradizione decaduta e necessità d'emancipazione. Ama (o desidera) il giovane parente, ma vorrebbe anche, con la complicità di lui, liberarsi da una famiglia detestata, e subisce la violenza più cruda quando Johnny, per mandare all'aria il matrimonio - l'amico non pensa nemmeno un attimo a confessare la verità - la seduce, facendole così perdere la reputazione agli occhi dei suoi. Tania se ne va, naturalmente, sparendo sui binari della ferrovia, quegli stessi su cui si era gettata anni prima la madre di Omo, depressa per le vessazioni subite dal figlio da parte dei bianchi, il fallimento economico del marito e la propria emarginazione in quanto moglie d'un "paki". Ma non vogliamo vederla come una sconfitta definitiva. Solo Tania può ripartire da se stessa azzerando un intero mondo, eterna apolide sempre di passaggio. È donna sotto qualsiasi latitudine, in tragitti mai concepiti per lei, e la fede, se arriva, è tutta da inventare. Nel manoscritto, Kureishi la ritrae seduta al finestrino con in mano un libro, l'unico che compaia in tutto il plot se si esclude la biblioteca del papà di Omo, segno d'erudizione vana. Può indurirsi per sempre, Tania. Oppure maturare, in quell'eremitaggio del cuore che, fra un treno e l'altro, gli anni ancora le concedono.

 

Daniela Tuscano

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati