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Cosmopolis

Regia di David Cronenberg vedi scheda film

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La recensione su Cosmopolis

di spopola
10 stelle

Un film di straordinaria potenza in cui Il regista, adottando e sfruttando con impassibile fermezza il linguaggio astratto del suo stile e le parole scritte da De Lillo, utilizza lo sguardo del suo protagonista per descrivere come meglio non sarebbe stato possibile fare, il mondo della finanza e del potere oltre che la forza corruttiva del denaro.

Cosmopolis è la traiettoria di un proiettile nel corpo urlante della realtà urbana, la definizione di un’identità fisica e reale per una figura che è talmente al centro del sistema da essere assunta al grado di idea, di astrazione, di algoritmo che interpreta e prevede i flussi dei soldi, ma si fa sfuggire l’imprevedibilità del dettaglio. (Massimo Causo – Filmcritica n° 515)

 

Io mi sento di affermare in totale (e personale) autonomia di giudizio, che Cosmopolis è un ottimo e importante risultato (anche politico - mi verrebbe da osservare - per ciò che ci racconta in soggettiva del mondo in cui viviamo e per le forti sensazioni di disagio che trasmette). Un film di straordinaria potenza insomma, con il quale Cronenberg (supportato dal testo di DeLillo) prosegue e amplifica il suo mai interrotto (nemmeno con A Dangerous Method checchè se ne dica in giro) personale discorso in costante evoluzione, un viaggio che lo ha portato ad estendere progressivamente la sua analisi strutturale delle cose, prima al pensiero, alla parola e alla psiche, per poi approdare alla finanza e alla società proprio con quest’opera persino più ambiziosa della precedente: se là infatti era l’inconscio freudiano, il transfert, il corpo sintomatico dell’isteria ad essere al centro del suo occhio impietoso, qui è addirittura il capitalismo ad essere preso di mira, il mondo della finanza del secolo corrente e la sua antropologia a-temporale (Pietro Bianchi). Freud e Marx, dunque: due questioni centrali dei nostri tempi, corpose e pesantissime, lette con una sorprendente contemporaneità consequenziale per altro, considerando il brevissimo intervallo intercoso fra le due pellicole – una sospensione di appena otto mesi - studiate e realizzate con un lavoro profondo e pertinente che indubbiamente (anche “necessariamente”, direi) utilizza adesso il narrato in maniera molto più massiccia di quanto non facesse una volta, ma che non rinuncia ancora e soprattutto, alla forza travolgente delle immagini che rimangono la materia pulsante del suo cinema, finalizzate al raggiungimento di un obiettivo ancor più demistificante del solito, che centra grazie a un meticoloso e ostinato lavoro di sottrazione, quasi asciugando all’osso il suo approccio visionario di una volta   che piega magistralmente a suoi bisogni (ma senza rinnegarlo o tradirlo), in una dinamica decisamente più complessa ed elaborata, ed anche molto più “rischiosa”, che può persino spiazzare a un primo avvicinamento un po’ epidermico. Il regista infatti, utilizzando la figura e lo sguardo del suo protagonista e adottando e sfruttando con impassibile fermezza proprio il linguaggio astratto, quasi impersonale ma assolutamente corruttivo del potere (e del denaro in questo caso) riesce a rappresentarci una dimensione personale e paradossale (ma tutt’altro che irreale) delle vicende messe in campo per descrivere e raffigurare come meglio non sarebbe stato possibile fare, la crisi contemporanea (che non è solo economica e sociale, ma anche di valori) che ci sta sommergendo tutti.

Un’operazione dunque che si configura come uno strumento capace di misurare l’esatto grado di separazione tra la sostanza lucida della materia e l’opacità sfuggente della consapevolezza che descrive il gioco perenne del cinema di Cronenberg (Massimo Causo) e che solo un regista giunto alla piena maturità artistica come lui, poteva definire (e risolvere) con tanta efficacia.

 

Girando Cosmopolis non ho potuto fare a meno di pensare a Marx, se non altro all’incipit del suo Manifesto: “Uno spettro si aggira per il mondo”: (sono parole rilasciate a caldo proprio dal regista durante un’intervista in occasione del passaggio del film dall’ultimo Festival di Cannes).

C’è qui un tema importante, che non avevo mai preso realmente in considerazione: il denaro. Il potere del denaro, il modo in cui dà forma al mondo. E per potermene occupare non ho avuto bisogno di fare ricerche nel mondo della finanza, perché i suoi agenti sono dovunque: in televisione, nei documentari, nei giornali. Fanno e dicono quello che ha scritto DeLillo, i loro codici comportamentali sono proprio come quelli di Eric Parker.

Il riferimento a Marx non è uno scherzo: nel Manifesto Comunista lui scrive del modernismo, del tempo in cui il capitalismo avrà raggiunto un tale grado di espansione, che la società andrà troppo veloce per la gente, e l’imprevedibile regnerà sovrano. Questo nel 1848! Ed è esattamente quel che si vede nel film questo caos prefigurato più di un secolo e mezzo fa. Mi domando spesso che cosa ne avrebbe pensato Marx se avesse potuto vedere non solo questa pellicola, ma anche il mondo che ci circonda, perché Cosmopolis mostra un sacco di cose che lui aveva previsto (…)

E non è nemmeno un problema che tra libro e film siano passati dieci anni, appunto perché anche il romanzo di DeLillo è sorprendentemente profetico. Non solo, mentre giravamo sono successe cose che erano già descritte nel romanzo: Rupert Murdoch ha ricevuto una torta in facci per esempio, mentre quando abbiamo finito le riprese, era in corso l’azione di protesta del movimento Occupy Wall Street.

Non so se DeLillo giochi in Borsa, ma dovrebbe farlo: ha una visione notevole di come vanno le cose e di come andranno e potrebbe farci molti soldi. Per sintetizzare insomma, se il libro era profetico, il film è contemporaneo, parla dei nostri giorni.

Ed è proprio così che stanno procedendo i fatti, perché se DeLillo con il suo racconto aveva formulato un’ipotesi che al momento poteva risultare quasi fantascientifica, Cronenberg – come da lui stesso ammesso - si è trovato a constatarne la veridicità (probabilmente irreversibile), nel dover fare i conti in diretta con tale terribile apocalittica visione non più “futuribile” che sta cambiando il mondo e la percezione delle cose. Cronenberg  di conseguenza non ha potuto che adeguarsi al tempo che stiamo vivendo adesso, scegliendo giustamente la strada che Roy Menarini su Duellanti definisce della verbalizzazione che si estrinseca in un dialogo fittissimo e quasi teatrale, necessario a contenere, esplicare e dare voce all’immaterialità della finanza, esattamente come ha fatto anche (in forma lessicale diversa  ma con altrettanta corrispondenza)  J. C. Chandor con il quasi “contemporaneo” (come uscita sui nostri schermi) Margin Call  che ha al centro lo stesso nocciolo della questione.

 

 “… chi mai potrebbe (…) non essere consapevole che quello splendore esteriore possa essere la superficie di una torbida realtà tendente a sprofondare? (James Joyce: Ulisse – XIV episodio)

 

Ancora una volta dunque l’alienazione dell’uomo contemporaneo raccontata con le valenze quasi joyciane del “viaggio” metaforizzato che rilegge e demistifica la realtà e il mito (quello capitalistico del denaro), con una pellicola che – come già accennato - è un lucidissimo, implacabile fotogramma in presa diretta sull’oggi.

Non ci sono però solo “troppe parole” dentro (considerate da molti e ingiustamente come un imperdonabile difetto), o almeno non soltanto quelle: c’è anche moltissima letteratura, come ha ben evidenziato Matteo Columbo: abbiamo infatti oltre a quell‘odissea joycianamente lunga un giorno a cui accennavo sopra, anche un’automobile proustianamente ovattata di sughero, e alcune domande salingerianamente sospese come quel “dove finisco tutte queste limousine di notte?” che rimanda inesorabilmente al giovane Holden che si chiede inutilmente dove mai vadano d’inverno le anatre del laghetto di Central Park, e soprattutto c’è tantissima “testa” (intesa come “cervello” e “idee”) tanto che a tratti ci si smarrisce in una voragine che può apparire puro delirio intellettualistico (ma è tutt’altra cosa, aggiungo io).

Ammettiamolo a chiare lettere allora: Cronenberg ha una predilezione per le sfide, e proprio la sfida (persino verso lo spettatore) è una delle caratteristiche peculiari del suo stile che fin dalle origini del suo cinema, più affascina e coinvolge. Di nuovo modifica dunque le sue strategie di rappresentazione, a costo di deludere coloro che lo vorrebbero immutabile e fermo a una modalità ormai cristallizzata che si desidererebbe inamovibile, ma che si muove invece e molto! (lo ha dimostrato proprio a partire da A History of Violence che io identifico come il titolo della “svolta”). Così, anziché adagiarsi sugli allori conquistati sul campo, decide di imboccare la strada più impervia ed in salita,  procedendo con un clamoroso quanto riuscito “doppio passo”  cinematografico perfettamente in equilibrio, perchè se da una parte accetta di adattare un romanzo per altro non semplice né facile come quello di De Lillo scegliendo – quando mette in pratica il progetto - di rispettare quasi integralmente i dialoghi scritti dal romanziere (opzione molto rischiosa perché, come ben sappiamo, molto spesso – anzi il più delle volte, si potrebbe dire – ciò che funziona ottimamente sulla pagina scritta non ha altrettanta credibilità quando viene tradotto con il linguaggio dello schermo, e viceversa), dall’altra li “reinventa” invece proprio con la cinepresa,  ricreando “a suo modo” e amplificando tutte le suggestione che  si ritrovano dentro le parole o ci girano intorno. E proprio questa è l’altra faccia della medaglia a cui accennavo sopra, o meglio “il secondo passo”, quello capace di (ri)vivificare tutto il narrato con il furore immaginifico e al tempo stesso claustrofobico delle immagini che si animano e “vivono” su un altro piano e in una differente dimensione, ma sempre in parallelo, accentuando e potenziando così la scissione già evidente fra i due livelli anche percettivi – la vista e l’udito  - e creando di conseguenza una disomogeneità “sensoriale” anche urticante per qualcuno, ma fondamentale, e soprattutto funzionale, per offrirci la diagnosi impietosa di un non-action movie di per sé asettico, ma capace di far vibrare le nostre zone “asimmetriche” (vedremo poi più avanti l’importanza centrale e fondamentale dell’asimmetria) e di farci ragionare in proprio su ogni azione e conseguenza di ciò che si dipana sullo schermo.

E’significativo però che Cronenberg in tanta fedeltà narrativa, abbia deciso di tagliare proprio uno dei momenti di maggiore intensità emotiva del romanzo. Mi riferisco a quello in cui Eric e sua moglie, dopo essersi casualmente imbattuti nella scena di un film che riprende una massa di corpi nudi distesa per terra (probabilmente una “sequenza letteraria” ispirata ad alcuni esperimenti visivi di Spencer Tunick) scoprono (o meglio, si rendono conto) di essere ancora capaci di amarsi e di saper esprimere questo sentimento: la sottrazione di tale umanizzazione delle figure, è una scelta  precisa e ponderata che – semmai se ne fosse avvertito il bisogno - conferma la volontà del regista di tenere a freno le profondità delle emozioni preferendo affidarle all’arte e alla pura astrazione, utilizzandole cioè come accessori non secondari, ma “di cornice” ricorrendo  alle suggestioni delle imponderabili sgocciolature di Pollock nei titoli di testa per esempio, ma anche alle sublimi campionature di colore di Rothko che accompagnano invece i titoli di coda (Eliana Elia).

 

Come ho già detto, i puristi  “denunciano” puntigliosamente (e con più di una ragione) che è proprio da A Dangerous Method che il regista ha dato molto corpo alla parola, invertendo così  i processi di significazione di una  nuova carne che adesso si identifica più propriamente nel processo mentale, ma non hanno considerato che era proprio questa la giusta strada e la sola davvero percorribile, perché era altrettanto chiaro che con quella pellicola il principio intorno a cui confluiscono e si aggregano anche le immagini (che riguarda anche la sua ultima fatica di cui mi trovo a parlare) è proprio quello che corrisponde al “modello” primario della seduta psicoanalitica, dove appunto (e non potrebbe essere altrimenti) sono proprio le parole a dominare, ad avere il sopravvento, a pesare fortemente e prioritariamente su tutto il resto: è una posizione operativa e di pensiero che ha ben compreso anche Domenico Cantone (e io sono sostanzialmente d’accordo con il suo pensiero) quando dice appunto che anche Cosmopolis in fondo può essere letto come un catalogo di sedute psicoanalitiche con i vari pazienti che si accomodano sui divanetti di uno studio situato dentro una vettura fallica (l’automobile del giovane miliardario), e dove  – come ho già cercato di spiegare – è la carne a farsi verbo, non il contrario.

Chiuso nell’iperaccessoriato e blindato involucro di quella limousine a prova di proiettile – ufficio, alcova/scannatoio, salotto su quattro ruote, ambulatorio medico privato e “pissoir”, con quel wc a scomparsa sotto uno dei sedili, Erik Parker si conferma dunque come l’ennesima figura cronenberghiana in fuga da se stessa che deraglia lentamente e irreversibilmente verso il proprio (tragico?) destino.

Una pellicola dunque (e lo riconfermo) assolutamente conseguente proprio al Dangerous Method che viene immediatamente prima, e dove, se fino a un certo punto la parola è solo un accessorio ingombrante quanto necessario, indispensabile per costruire dentro le immagini un’atmosfera rarefatta, quasi estraniata e surreale, è proprio nella parte finale che prende invece  il sopravvento, diventa dominante, recuperando così la fondamentale importanza del confronto dialettico, decisivo per dare un significato finalmente concluso e conclusivo, a ciò che è accaduto ed è passato davanti ai nostri occhi e quasi in tempo reale, fino a quel momento.

Il senso di smarrimento volutamente ricercato da una modalità praticamente unica di fare cinema  che sembra voler attraversare gli strati di coscienza trasportando – come si è visto - la carne dei corpi nella sostanza delle idee,  è straniante e in progressione, proprio come in una metamorfosi affidata questa volta soprattutto alla percezione dello sguardo pur in tanto guazzabuglio di parole: si inizia con l’isolamento uditivo della limousine – entità quasi sacrale pronta ad essere violata da ciò che la circonda, nella dilatazione quasi sospesa di un tempo che scorre nell’arco di una giornata senza lasciare coordinate esatte (Ivan Moliterni) ma che sembra infinito. L’annullamento percettivo che determina, è  quasi diatonico, e non riguarda soltanto i personaggi: finisce per coinvolgere l’intera attività esterna, ovattata e un poco fuori sincrono che diventa il necessario contrappunto della storia. Ed è così che è proprio al di fuori dell’auto (l’effettiva “materia in movimento” che racchiude al suo interno un guscio statico capace di modificare le sue cellule in rapporto col complicarsi delle situazioni, delle rivolte e delle “mutazioni” che preannunciano eventi sempre più catastrofici nel loro inesorabile incedere) che  tutto sembra  preannunciare, fino a portarne su di sé le stigmate, l’imminenza di un’apocalisse temuta come una tragedia epocale, ma che all’interno del “bozzolo” viene invece vissuta  (o meglio interpretata) con ineluttabile rassegnazione espressa da un’agghiacciante imperturbabilità capace di alzare barriere gigantesche fra ciò che è vero e ciò che invece viene filtrato dalle reazioni individuali (e i pochi momenti in cui si avverte una sia pur labile, manifesta percezione emotiva delle cose, un accorgersi della profondità del precipizio, sono utilizzati soprattutto per rendere più radicale la metafora della condizione umana soffocata dalla  assuefazione agli stimoli e dalla ricerca fallace di qualcosa che possa per lo meno provare ad azzerare (o anche semplicemente intaccare) tale follia. Il diapason di tale rarefazione sensoriale viene raggiunto proprio nella straordinaria sequenza – momento cruciale e definitivo della storia - del confronto finale (dopo l’eliminazione cruenta del guardaspalle Torval) fra Eric Parker e Benno Levis (claustrofobico e mentale come il resto del film) che si potrebbe interpretare benissimo come un dialogo con un’altra parte di sé del protagonista stesso… una parte talmente modificata (contaminata) da essere diventata una nemica  capace di assumere sembianze umane, quella che ha germinato e preso forma dopo la rivelazione della prostata asimmetrica (la surreale e impietosa diagnosi del dottore che è soprattutto la presa di coscienza di una asimmetria generale e destabilizzante non solo fisiologica o fisiognomica - il taglio dei capelli da sistemare – ma anche  monetaria e degli equilibri capitalisticamente intesi e concepiti, che riguarda la nostra società e il mondo intero). Qui viene davvero rimesso tutto in discussione (o così sembra almeno) annullando definitivamente l’aspirazione alla stabilità in precedenza proclamata e considerata come costante certa della vita e del successo che porta il “nostro eroe” (si fa per dire) dopo aver scientemente e drasticamente soppresso la difensiva invadente delle guardie del corpo, ad andare incontro ed affrontare in assoluta solitudine, il proprio destino (inteso anche come la propria morte).

 

Nel suo viaggio verso “il tracollo” Parker incontra parecchie persone, che pur apparendoci come reali – e certamente lo sono -  possono essere anche loro lette e interpretate come estensioni della sua mente, visualizzate e rese concrete nella forma delle fantasie meccaniche costruite attorno alle  ossessioni  e alle inquietudini di un interminabile flusso di pensiero soggettivo che nasce nel nulla e nel nulla si sublima, perché  il regista non ci offre un quadro realisticamente veritiero di ciascuna di queste figure nemmeno on questo caso, ma predilige invece anche nel loro disegno cinematografico, la strada  dell’alterazione interiore e dell’astratto, esattamente come è astratto il linguaggio del potere, la cui violenza si accresce con l’aumentare del livello di indeterminazione, e con il quale Cronenberg lavora in stretta connessione di rappresentazione pratica ad ogni livello.

I dialoghi comunque non sono mai violenti (semmai improbabili e quasi immateriali nonostante la loro voluta verbosità), il più delle volte imprevedibili e in apparenza insensati, soprattutto se rapportati ai comportamenti e alle azioni (avrete notato che Parker ha sempre qualcosa con cui riempirsi la bocca: caramelle, noccioline, parole, alcol, seni di donne, lingue e labbra turgide da baciare), tanto da determinare una frattura che fa sì che l’unico codice di interpretazione della crisi diventi lo scollamento sempre più profondo e preoccupante, fra il bisogno di capire e l’irrazionalità della vita stessa. Cronenberg insomma  pur rinunciando (definitivamente?) ai codici visionari-allucinatori e all’instabilità narrativa della precedente fase del suo percorso artistico, qui lavora davvero di fino nel filtrare l’universo creato da DeLillo e ci regala un altro girone del proprio inferno interiore nel mettere in scena un mondo in decomposizione, ma fuggendo la trita simbologia ideologica (o magari facendo finta di accettarla, ma per rimescolarla con il proprio genio per farla diventare "altro”), continuando così a riflettere e ad interrogarsi – seppure in maniera abbastanza diversa dal suo solito – sul tema della “mutazione” e sull’ossessiva osservazione che da sempre il regista riserva alle interazioni esistenti fra la macchina e l’uomo che determinano – nel suo cinema - la stretta relazione che sempre coniuga l’uomo alla macchina e che porta alla corporeizzazione dell’una e al divenire macchina dell’altro (Eliana Elia). Straordinaria in questo senso – bellissima quasi come un capolavoro della pop art – la scena in cui la limousine inquadrata dall’alto ( “vero corpo pulsante” e laboratorio vivente in movimento ormai definitivamente “rettificato”) si infila nella porta di un garage tutta ammaccata e coperta di variopinte scritte realizzate con la vernice spray, come se si trattasse di una “penetrazione sessuale” (per lo meno questa è la percezione che è arrivata a me).

 

Gli interpreti del film non sono quelli che avevo in mente all’inizio: un motivo in più per la costante reinvenzione del progetto. Io volevo Colin Farrell nei panni di Eric Parker e Marion Cotillard per sua moglie Elise, ma il primo aveva problemi inconciliabili di date in relazione ai suoi precedenti impegni mentre la seconda era incinta. Ho cambiato allora lo script aggiustandolo per un attore più giovane e recuperando così la fedeltà al libro. Ho optato per Robert Pattinson che avevo trovato interessante sia in Twilight che in Little Ashes e Remember me perché ho pensato che avesse la faccia giusta  per essere Eric. (David Croneberg).

E’ sempre difficile immaginare cosa si poteva tirarci fuori con un altro cast, ma possiamo comunque essere soddisfatti dalla resa dell’intera compagine alla fine arruolata che credo non abbia creato in nessuno forti rimpianti.

Fra tutti ovviamente domina la prova smagliante offerta dal sempre strepitoso Paul Giamatti che rende sublime la breve caratterizzazione finale di  Benno Levin. Accettabilissima però e pertinente (una volta tanto tutt’altro che un corpo estraneo) la bella prova  “catatonicamente” inquietante, rigidamente meccanica e quasi amorfa, di un Robert Pattinson mai così in parte. Tutti funzionalmente efficaci gli altri interpreti da Samantha Morton a Sarah Gordon, senza dimenticare Kevin Durand, Juliette Binoche, Mathieu Amalric, Jay Baruchel e l’ulteriore folta schiera di comprimari.

Di ottimo impasto anche cromatico la bella fotografia  di Peter Sushitzky e di efficiente resa il contrappunto musicale di una colonna sonora  eccezionale e pertinente realizzata da un ispirato Howard Shore, portentosamente inquietante come il film.

 

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