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The Grandmaster

Regia di Wong Kar-wai vedi scheda film

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La recensione su The Grandmaster

di Tato88
8 stelle

Il Granmaestro Wong Kar-Wai ha così introdotto gli spettatori dell’occidente industrializzato al suo film: “Spero vi piacciano i kung fu movie, perché questo è un kung fu movie. Se non vi piacciono i kung fu movie, spero vi piacciano dopo aver visto il mio film”. Poi mentre si allontanava dal palco ha aggiunto qualcosa di serio e fondamentale: “In Cina ci sono state due generazioni di Kung fu. Nella prima le arti marziali non erano né uno show né un business. Erano un’arte. Una filosofia dello spirito”.

Da grande amante del film “V per Vendetta”, durante ogni singola inquadratura e ogni singolo taglio del film di apertura della 63° Berlinale sentivo echeggiare nella mia mente le parole di Natalie Portman: “Dio è nella pioggia”.

The Grandmaster inizia con una lunga e spettacolare battaglia sotto un violento acquazzone. Nessuna introduzione, nessun gioco di sguardi o di provocazione tra le parti. Si combatte dalla prima inquadratura, e le sfide e le battaglie si susseguono simili (per noi dallo sguardo non allenato) e senza sosta con ritmo serrato e costante per tutta la durata della pellicola. Piedi e mani e gomiti roteano e distruggono con ordinata precisione gli elementi artificiali delle ambientazioni interne e sfiorano e spostano delicatamente quelli naturali degli esterni. Lo smarrimento e la confusione che si prova nei primi minuti del film inevitabilmente svanisce quando si inizia a notare che Wong predilige ai personaggi le visioni ravvicinate e rallentate di solidi cardini che si spezzano, piccoli ghiaccioli che pendono da oscillanti rami di pino, vasi frantumati che collassano su loro stessi, danzanti fiocchi di neve spostati da un rapido oscillamento del polso, vetrate frantumate dal volo dei corpi dei perdenti, gocce di pioggia che si irradiano dal bianco cappello dell’eterno vincitore.

È nell’osservazione kantiana delle piccole cose che non possiamo fare a meno di rintracciare un senso di finezza del creato, e il regista mantiene serrato il suo sguardo ai margini del combattimento per rintracciare la filosofia della prima generazione del kung fu. Rarissime sono le inquadrature più larghe dei primi piani, forse qualche mezzo busto, un paio di piani americani, ma decisamente non c’è spazio per totali o establishment shots. E quelle poche volte che compaiono c’è sempre qualche personaggio, qualche elemento paesaggistico che fa da quinta a metà dello schermo. Questo non vuol dire che le ambientazioni siano secondarie o del tutto ignorate dal regista, che con maestria riesce invece a valorizzarle enormemente con una tattica davvero furba e degna di lode, ovvero sbagliando spesso e di proposito la posizione dell’ “aria” nei primi piani (mettendola dunque nella porzione di schermo opposta alla direzione dello sguardo). L’occhio semplicemente non si interesserà a rintracciare un collegamento con l’inquadratura successiva o precedente, bensì si sposterà lontano dalla battaglia, verso i ciliegi innevati, i fiocchi di neve, i treni in corsa. Quando si dice “manipolare il pubblico”... E se David Bordwell ancora si diverte a calcolare la lunghezza media delle inquadrature di un film, qui troverà pane per i suoi denti con un montaggio a sei mani che raramente supera i tre secondi tra un taglio e l’altro. Una colonna sonora fantastica e l’interpretazione da fiato sospeso di Zhang Ziyi completano il tutto.

E il risultato è incredibilmente efficace. Per chi, per dirla alla Shyamalan, non ha ancora disimparato ad ascoltare, una volta compresa la logica e il metodo di lavoro del regista e avesse il piacere di abbandonarsi alle immagini e rubare con gli occhi ogni frame della pellicola, allora veramente riuscirà a sentire le argomentazioni bohémien e le conversazioni tra i maestri delle “arti” marziali e Dio a proposito di temi fondamentali come destino, predestinazione, ruolo e scopo. Non mancano le lacrime in un finale che rifugge con poetica grazia la retorica e la nostalgia di un tempo passato e irrecuperabile, così nella cultura come nell’amore tra i due protagonisti.

Wong Kar-Wai ha fallito. Perché The Grandmaster è come il cibo delle fate, una volta assaggiato non potrete mangiare niente di diverso e probabilmente morirete di fame. Se prima vi piacevano i kung fu movie, ora dovrete per sempre confrontarli con questo, e morirete di fame.

Ho esagerato? Troppo malinconico? Ci pensano i trenta esaltanti secondi dopo i titoli di coda a sdrammatizzare e a provocare con fulminanti sguardi in macchina una standing ovation davvero necessaria per dar sfogo a tutte le emozioni accumulate durante la visione del GranCapolavoro di Wong Kar-Wai.

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