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Melancholia

Regia di Lars von Trier vedi scheda film

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La recensione su Melancholia

di laulilla
9 stelle

I limiti della scienza, incapace di attrezzarci ad affrontare la morte, poiché non fa che accrescere la nostra hybris, allontanando da noi la coscienza della nostra fragilità e della nostra solitudine.

 

 

Melancholia è  il nome di un enorme pianeta che sta dirigendosi verso il nostro mondo che, infatti, ne verrà inghiottito.
Non credo, dicendo questo, di rivelare alcunché, né di togliere il piacere che deriva dalla visione del film, perchè è lo stesso regista che quasi subito ci rappresenta l’urto fra i due astri in una scena indimenticabile, lontanissima dalle immagini dei film di fantascienza: nessun effetto speciale, nessuno scoppio catastrofico, ma semplicemente l’inglobamento dolce di quella minuscola pallina, che è la nostra Terra, dentro la superficie elastica e accogliente del grandissimo astro: un breve rigonfiamento, una vescica cosmica che non increspa neppure la superficie esterna dell’astro, che rapidamente la riassorbe in sé: la fine, dunque.


Melancholia è, infatti, una meditazione sulla fine, non solo del mondo, ma soprattutto nostra, un film sulla morte e, insieme, sul senso della vita. Accompagnato dalla musica malinconica del Tristano e Isotta wagneriano, il prologo che ho descritto ci introduce, con una breve sequenza di quadri teatrali, allo scenario della tragedia degli ultimi giorni dei personaggi: un grande palazzo in riva al mare, con un retrostante giardino che è circondato da un fitto e intricato bosco, dal quale, a fatica, esce, trattenuta da un viluppo di radici che la tengono legata (citazione probabile del giogo bunueliano di Le chien andalou, ma non si tratta dell’unica citazione del regista spagnolo), Justine (Kirsten Dunst), vestita da sposa.


Ha quindi inizio il film, che si sviluppa in due tempi, dedicati rispettivamente il primo a Justine e al giorno del suo matrimonio; il secondo a Claire (Charlotte Gainsbourg), la sorella di Justine che vive nella lussuosa magione, nella quale si svolge la festa nuziale.

 

 

Le due sorelle sono alquanto diverse fra loro: Justine è una donna di successo con un ottimo lavoro: riceve come dono nuziale una promozione professionale; Claire è la madre di un bimbo di cinque anni, nonché la moglie di John, il ricco signore padrone di quella casa. Nel corso del primo tempo, la radiosa sposina innamorata si trasforma in una donna inquieta che si stacca a poco a poco dalla vita: rifiuta il lavoro e la promozione appena ricevuta, rifiuta il marito, che le ha appena donato una piantagione di melograni (gli alberi della vita e della fecondità, secondo la tradizione orientale) e pare rasserenarsi alla luce sempre più vicina del misterioso astro, la morte, che contiene la spiegazione di tutto, la verità che tutti rifiutiamo, forti delle nostre conquiste scientifiche.

 

 

Il senso della vita, che Justine vuole ritrovare, è nelle sue radici, che affondano nella terra (mi pare il significato della scena iniziale): ciò che le permette di “sapere” e di affrontare la fine con serenità.

Claire, all’opposto, crede di essere più forte di Justine (la considera malata) e di fronte al tragico destino che sta per coinvolgere lei e la sua famiglia, rifiuta di arrendersi e cerca un’irrazionale via di scampo.
Sarà Justine a rendere meno duro e doloroso il distacco dall’ esistenza per lei e per il piccolo, con un gesto che richiama al senso profondo del vivere: stringersi la mano nell’attesa di ciò che è ineluttabile significa ritrovare la solidarietà, quella “pietas” leopardiana, che dà a ciascuno di noi l’unico conforto possibile di fronte al nulla che ci schiaccia senza pietà.


Il film è, a mio avviso, tra i più convincenti del regista, rivelandone  l’eccezionale talento nel trasmettere, col linguaggio del cinema, un messaggio filosofico duro e difficile, coerentemente espresso attraverso una storia sempre interessante e tesa.

 

 

 

Il film contiene immagini di grandissima suggestione simbolica, ispirate alla tradizione cinematografica nord-europea e non solo, ma anche attinte al repertorio della pittura: oltre al richiamo a Bruegel, esplicito, delle prime scene, o ad Albrecht Dürer, autore di una celebre Melancholia su acquaforte, si può scorgere, mi pare, anche quello alla Tempesta giorgionesca nella scena di Justine nuda di notte alla luce di Melancholia (la donna anche in questo caso, non oppone difese alla “tempesta” in arrivo).

Bellissimo, e a sua volta simbolico, l’accompagnamento musicale, che affianca emotivamente il lucido e difficile messaggio nichliista di questa pellicola.

 

 

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