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Essential Killing

Regia di Jerzy Skolimowski vedi scheda film

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La recensione su Essential Killing

di Peppe Comune
8 stelle

L’esercito americano cattura un guerrigliero afgano (Vincent Gallo) durante un’operazione militare “non ufficiale” effettuata in una zona desertica. Trasportato in un centro di detenzione in Europa, e dopo essere stato sottoposto a delle torture, il prigioniero riesce a scappare e a trovare riparo in una fitta foresta innevata. La caccia all’uomo diventa serrata, l’esercito dispiega tutte le sue forze per la cattura del prigioniero. L’uomo che viene dal deserto fugge per non essere preso, in un territorio che non conosce e che gli appare più inospitale del previsto. Si riscopre solo con se stesso, ricondotto alla sua primaria essenza di uomo, costretto ad uccidere per poter sopravvivere.

 

Vincent Gallo

Essential Killing (2010): Vincent Gallo

 

“Essential Killing” di Jerzy Skolimowski  si apre con il rumore assordante di un elicottero militare, poi va su un gruppo di soldati armati tutto punto che stanno perlustrando una zona desertica. Quindi si concentra sulla fuga disarticolata di un soldato afgano, sul suo ansimare affannoso, il suo resistere in un ambiente inospitale, sui suoi occhi dominati dal terrore. La sua bocca che non proferisce parola. “Essential Killing” non è un film sulla guerra, ma la usa come essenziale espediente narrativo per porre l’attenzione sul fatto che ogni uomo, da soggetto dotato di ragione, può ritrovarsi ad essere un oggetto dominato dal puro istinto. É come se Jerzy Skolimowski volesse dirci che la guerra rientra tra le cose del mondo, come la possibilità che l’uomo regredisca al rango di animale quando si sente braccato ed è costretto ad uccidere per non essere ucciso.

É un film che mostra l’azione, ma che si nutre dell’assenza della sua più naturale vocazione spettacolare. Per l’afgano, agire vuole semplicemente significare nascondersi da chi lo sta cercando o fuggire da chi lo sta seguendo, senza che a ciò egli dia un senso diverso dall’allontanarsi da un pericolo incombente. Ogni soggetto di questo film non esiste ufficialmente, ne i militari che operano in quella zona dell’Afghanistan, ne i prigionieri detenuti in un campo di prigionia tenuto segreto, e neanche il fuggitivo riuscito a scappare per un concorso di cause fortuite. Le uniche cose riconosciute e riconoscibili sono l’abitudine di farsi la guerra, che genera la paura panica di sparare per secondo, e lo spirito di sopravvivenza, che scaturisce dalla necessità di salvaguardare la propria vita prima di ogni altra cosa. Messe in un unico quadro concettuale, come facce di una stessa medaglia, questi due aspetti servono a ricondurre l’agire umano alla sua essenza primaria e primordiale : uccidere per avere salva la vita. Anche l’ambientazione fa il suo, prima desertica e assolata, con dei calanchi scavati nella roccia la cui forma labirintica non serve a disinnescare le insidie mortifere che vi sono nascoste, poi boschiva ed innevata, la cui fitta vegetazione è l’ideale per chi intende nascondersi dall’occhio indiscreto di radar sofisticatissimi. Opposti che si attraggono quindi. Come le avanzate armi da guerra ed un esercito di professionisti a cui si contrappongono le modalità di fuga di un uomo che ci riconducono fino all’inizio dei tempi. Come il disordine psichico che alberga nella mente di un uomo che si sente braccato, a cui fa da contraltare la calma serafica di una donna che gli offre un posto dove riposarsi e trovare riparo. O come la vita e la morte, divise in questo film da una sottilissima linea di confine, a seconda  da se il caso ha fatto in modo ci si trovasse lungo lo stesso tragitto di un “animale” impaurito, o se si è stati lesti a sferrare il primo colpo.  Opposti che configurano un rapporto conflittuale ed armonioso insieme tra l’uomo e la natura, trovando una sintesi adeguata nella messinscena “modernista” voluta da Jerzy Skolimowski, che agisce di sottrazione per togliere allo sviluppo della storia ogni forma di spettacolarizzazione gratuita. É l’uomo colto nella sua essenza primaria ad interessare l’autore polacco, a stretto contatto con la necessità di trovare nella natura quanto gli serve per adempiere ai suoi più stringenti bisogni fisiologici. Una natura di cui si può avere paura perché non la si conosce bene, ma in cui si può trovare un riparo sicuro e di che sopravvivere. Dell’uomo è importante vedere come gli eventi lo hanno spinto fino allo stato di natura, il modo in cui elemosina da bere o da mangiare (emblematica è la sequenza in cui l’uomo cerca di succhiare avidamente del latte dalle tette “enormi” di una donna). Insomma, ciò che è essenziale sapere ci viene mostrato efficacemente attraverso la perizia registica di Jerzy Skolimowski, che fa seguire a delle ampie panoramiche catturate dalla sommità di aerei militari, delle soggettive insistite che sembrano far aderire lo sguardo del fuggitivo a quello di un qualsiasi animale preso nel suo habitat naturale. Ad un’estetica post-moderna si associa la narrazione di un uomo in fuga colto nella sua essenza primitiva. Ormai è la paura a dettare legge in un mondo disumanizzato dalla necessità di doversi dare un capillare controllo militare. Una paura che comporta l’assenza della ragione e il prevalere del muto istinto. E, come ci ricorda il fuggiasco in alcuni veloci flashback “luminescenti” prodotti dalla sua mente, l’essenza del puro istinto comporta l’assenza di (qualsiasi) Dio.

Grande cinema di un grande vecchio del cinema europeo.    

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