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Vallanzasca. Gli angeli del male

Regia di Michele Placido vedi scheda film

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La recensione su Vallanzasca. Gli angeli del male

di spopola
8 stelle

Vallanzasca è il ritratto di una canaglia, tragica rockstar di un tempo filosofo, una furba e feroce riflessione sull’immanenza del tempo e sulla consapevolezza di assaporare fino in fondo, con donne e pallottole, istanti inafferrabili e oscuri. (Domenico Barone)

 

Proviamo a dimenticarci per un attimo che Michele Placido è un regista italiano, perché credo che a volte sia questo che spesso crea degli strani pregiudizi, soprattutto quando si tratta di valutare un particolare tipo di pellicole legate a un genere preciso di appartenenza, nella quale entra di diritto proprio questo Vallanzasca..

Certo la sua carriera non è stata tutta rose fiori, e sono forse più le “cadute” che le eccellenze, ma indubbiamente (e questo glie lo dobbiamo riconoscere) col “genere” ci sa davvero fare e ha poco da invidiare a certi numi tutelari che vanno per la maggiore sul mercato delle valutazioni internazionali: porta avanti seriamente e con particolare competenza (almeno in questo settore) un discorso ben strutturato e altrettanto ben articolato che merita rispetto ed attenzione.

Valutato in quest’ottica e senza quel preconcetto di partenza che ci fa storcere spesso il naso a priori verso tutto ciò che è “autarchico” (almeno cinematograficamente parlando) salvo esaltarsi a volte per  un “non cinema” magari solo divertente affidato all’estro di interpreti gradevoli, ma così presuntuosi che pensano che una battuta, una trovata, sia “ugualmente” cinema anche in mancanza di una regia curata e ben strutturata, è probabilmente un film che potrebbe riservare a molti più di una piacevole sorpresa.

Premessa necessaria questa, per dire insomma e senza mezzi termini, che questo Vallanzasca (se si esclude qualche incertezza iniziale e piccoli problemi di montaggio) a me sembra che funzioni, ed anche bene!!! Non raggiunge la compattezza e il coinvolgimento empatico di Romanzo criminale (a mio avviso ad oggi l’opera più matura e compiuta del regista) ma è ben lontano dagli smarrimenti ideologici e di costruzione, dalle sbavature e gli “accomodamenti” che lo avevano invece fatto naufragare nella ricognizione descrittiva sul suo “personale” sessantotto – per molti versi deludentissima  ed approssimativa salvo rari sprazzi – fatta con Il grande sogno (suppongo per un eccesso di “passione” che non può non essersi scontrata con i troppi condizionamenti esterni di chi ci stava mettendo i soldi e aveva una visione più addomesticata, e soprattutto di chi poi doveva curare la distribuzione in sala che ben possiamo immaginare come la pensava al riguardo).

Con Vallanzasca ritrova infatti essenzialità e sintesi, e ci regala una pellicola seducente e un pò barocca tutta incentrata sui valori e i principi del rispetto e dell’obbedienza, nichilista e “celebrativa” quanto si vuole, ma efficace, che evita ricatti (anche di tipo sentimentale) e non eccede in troppi simbolismi esasperati.

Potremo allora dire che anche in questo caso (ma non poteva essere che così, visto il personaggio raccontato) il ritratto che del bandito ci viene offerto sullo schermo, lo schema scelto per la sua rappresentazione iconografica, è quello canonicamente classico che si potrebbe definire del rise and fall (l’ascesa e la caduta), una specie di parabola morale insomma che Matteo Columbo su Duellanti, definisce “del ‘povero Cristo’, segnato dal sangue proprio e altrui di una via crucis quasi letterale”, che si dimostra  una modalità di approccio alla materia molto indicata per tratteggiare quella particolare criminalità che sembra ormai scomparsa (che qui si inserisce e trova spazio in un sistema - politico e carcerario - prepotente e inadeguato, incapace in ultima analisi anche di dare effettiva giustizia alle vittime), che ha il sapore antico del passato, ancora legata come è a codici e limiti che paiono quasi degni di rimpianto tanto ci risultano “etici” (anche se non hanno certo impedito di mietere molte vittime innocenti)  rispetto a un presente dove il banditismo ha assunto ormai da tempo le forme de­leterie del potere e diventa spesso persino “prepotenza assoluta delle istituzioni”.

La storia “vera” di Vallanzasca (l’abisso contraddittorio di un’esistenza/resistenza e il suo consumarsi, simile a quello di una sigaretta, indizio centrale del film e di un mondo che fu paradossale età dell’innocenza [Matteo Columbo]), è già di per sè una sceneggiatura che sembra scritta apposta per lo schermo: l’infanzia nella desolata periferia lambratesca, la giovinezza ribelle e un po’ spavalda, l’insofferenza per la legge e le regole imposte dalla società, la deliberata scelta della delinquenza quale unica strada percorribile per una affermazione personale, il fascino seduttivo (e non solo per i tratti somatici) di una figura per più di una ragione molto carismatica, l’abbondanza di donne, di auto di lusso, di locali… insomma il campionario perfetto che permette di comporre una storia da nemico pubblico dei film hollywoodiani (Federico Pedroni), ovviamente riletta in “salsa tutta italiana”, e  farne uscire fuori un’opera altrettanto violenta, attenta e dettagliata nella descrizione di caratteri brutali e senza troppi scrupoli che colloca i fatti in un contesto degradato e pieno di ingiustizie, con un’andatura ricca di avvenimenti e di azioni zeppe di sangue e di vendette anche trasversali.

Placido non si dimentica mai che sta però parlando di un uomo “reale”, che i fatti che racconta sono cronaca abbastanza recente anche se ormai un po’ obliata, e che in ogni caso Vallanzasca per quanto si possa poi filosofeggiare sulla sua figura, è comunque sempre e solo un  rapinatore e un assassino che sta scontando in carcere i sui quattro ergastoli e più anni di reclusione, e opta forse proprio per questo per farne  una “narrazione” quasi romanzata, decisamente fuori dalla cronaca spicciola di una documentazione puntigliosamente oggettiva delle cose, che nasce già dalla scelta unilaterale di partire utilizzando il posizionamento di una autobiografia - e come tale di parte – scritta dal protagonista (sia pure con la collaborazione mediata del giornalista Carlo Bonini) dal titolo “Il fiore del male”  che ci propone come approccio programmatico l’immagine evidente di una gioventù bruciata (troppo presto e male) magari proprio con la speranza che poi la violenza per quanto ingiustificabile, possa  trovare a posteriori per lo meno un senso rivendicativo (o fondativo), o meglio ancora semplicemente un alibi imperfetto ma necessario per bilanciare un poco e dare un senso a tante esacerbate azioni delittuose (vedi il montaggio alternato fra la discoteca e il primo pestaggio in prigione dell’”eroe” bandito).

Ipotizzo allora che se il regista avesse girato un gangster movie fittizio e immaginario costruito su una figura di fantasia semplicemente “assimilabile” per qualche tratto e molte coincidenze a quella del Vallanzasca stesso, nessuno avrebbe avuto da ridire o da risentirsi con troppe permalose riflessioni un po’scandalizzate come invece è accaduto da più parti in questo caso, e ci si sarebbe così potuti concentrare maggiormente sul ritmo e la forma del lavoro, oltre che sui pregi di una recitazione ricca di sfumature nelle single prestazioni attoriali e nell’insieme della resa, diventando molto più compiacenti e comprensivi.

E’ allora l’adozione di quel particolare punto di vista nella narrazione dei fatti a cui accennavo sopra a sollecitare “reazioni” spesso  in negativo? Probabilmente è così, ma quella di Placido era una scelta oltre che legittima anche necessaria, che viene per altro rispettata per tutto l’arco del film (e di questo dovremmo riconoscergli quantomeno il merito della coerenza) anche se magari sarebbe stato preferibile che fosse stato portato avanti a “latere” anche un discorso sociologicamente più pregnante e meno approssimativo.

Con questo voglio ribadire che non ci troviamo certo di fronte a un capolavoro, ma a un civile cinema di impegno artigianale davvero di ottima fattura, un  romantico, crudo e crudele (non è una contraddizione) racconto di formazione sul tradimento, sulle leggi morali della violenza e sulla giustizia del sangue. Placido mette in scena dunque la manipolazione dei mezzi d’informazione che hanno sempre molte responsabilità nella costruzione (e distruzione) dei “miti”, la spietatezza delle esecuzioni di una “simpatica” mente criminale, i limiti e le responsabilità della giustizia, e la provocazione portata alle estreme conseguenze, con un film tutto al maschile sui codici di comportamento, sui paradossi grotteschi dei privilegi della vita in carcere, sul fascino e l’attrazione del potere, della droga e della ricchezza, dove nemmeno le donne sono secondarie.

Un modello di cinema  insomma che ha dalla sua un ritmo veloce ed incalzante tutto incentrato sul bel René e i suoi sodali, e che difetta semmai dell’approfondimento sociologico a cui accennavo sopra (che solo uno sguardo più entomologico avrebbe potuto stimolare, e che sarebbe stato indispensabile per rileggere in filigrana attraverso le gesta del bandito, un’epoca inquietante e oscura come quella in cui sono maturate le sue gesta delittuose), che comunque e in ogni caso, non è solo la biografia sovraeccitata du un delinquente, ma si conferma invece come un’occasione molto stimolante per un viaggio tutto cinematografico che certamente “paga dazio” verso un genere poliziesco all’italiana un tempo molto in auge  (che – ricordiamolo - non ha mai avuto nulla da invidiare a quello messo in piedi da altre cinematografie più celebrate – Tarantino docet) ma prova anche a reinventarlo in qualche modo e rendere così un evidente omaggio proprio alle  pellicole di un  Massimo Dallamano o di un Fernando di Leo, con uno sguardo sorprendentemente iperrealista  che fotografa le cose con colori forti e psichedelici  particolarmente indicati per riprodurre anche “stilizzandola un poco”,  l’amarezza e il disincanto di anni irripetibili resa mortifera dalla guerra malefica dei sospetti e delle delazioni.

Scandito da un montaggio che a parte alcune piccole pecche è quasi sempre strepitoso e da una scansione musicale senza pause, il film rimanda dunque formalmente ai “classici” del genere, nel suo contaminare il racconto di questa banda di “operai quotidiani del crimine” (qualcuno l’ha definita così, ma non ricordo chi è stato, e chiedo venia per aver comunque preso ugualmente in prestito il concetto) che si sono fatti largo cercano spazio e prestigio fra le bande di delinquenti più affermati e “protetti” nella Milano già un po’ da bere degli anni settanta, raffigurata come un far west tutto italiano con la banda criminale e il suo leader carismatico sempre in primo piano e il piacere e il potere come unico movente delle azioni di quel gruppo di amici fino dall’infanzia che arriveranno a  dominare la città tenendo sotto scacco l’intera nazione,  ma con alcune importanti suggestioni che rimandano istintualmente alle figure romanticheggianti degli“angeli del male” di cui è pieno il cinema americano a partire da Scarface (ma anche quello francese non scherza)  senza dimenticare però anche quelle più mitiche e “sociali” (oggettivamente con qualche approssimazione ideologica di troppo) in stile Robin Hood.

 

Vita, delitti ed evasioni della banda della Comasina dunque, ben collocati dentro una metropoli vividamente colorata, tra pentimenti, vendette trasversali e giuramenti indissolubili (così si può sintetizzare la storia, senza entrare troppo in particolari): una radiografia del crimine realizzata  con controllata partecipazione razionale ed estetica su dettagli e sfumature, e dove rimane centrale il racconto evocativo dell’indissolubilità delle relazioni adolescenziali (tema ugualmente presente in Romanzo criminale), dell’amicizia virile, del rimpianto di un’epoca svanita e in po’ miticizzata, e soprattutto dell’impulso autodistruttivo che traspare sempre e comunque in moltissimi tratti molto ben delineati. Emotivamente coinvolto con l’identificazione e la sovraesposizione del protagonista, Placido è comunque bravissimo a utilizzare inquadrature molto strette che aiutano a riprodurre le debolezze e i fortissimi legami che uniscono fra loro i personaggi, oltre che a delineare con una certa dose di ironia, le imprese di una banda di assassini  fra conflitti psicologici, contrasti generati dai rapporti di forza dalla paura e dalla vendetta e brutalità delle passioni oltre che delle uccisioni,  resi per altro in tutta la loro drammatica durezza, da uno stuolo di interpreti in stato di grazia che vede in primo piano un Kim Rossi Stuart davvero di eccellente levatura, “perfetto” anche fisicamente per il ruolo del bandito odioso, crudele, spietato, ma al tempo stesso affascinante e “piacione”. Attorno a lui, il grande Moritz Bielbtreu che si conferma anche qui attore di gran classe, Filippo Timi, di nuovo alle prese con un personaggio un po’ fuori di testa, e un ottimo Francesco Scianna, oltre che  una coppia femminile di gran pregio come quella formata da  Paz Vega e Valeria Solarino.

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