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L'ultima risata

Regia di F.W. Murnau vedi scheda film

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La recensione su L'ultima risata

di spopola
10 stelle

L’’importanza di questa pellicola (uno dei capolavori assoluti del cinema) non è solo di contenuto. Riguarda anche l’evoluzione dello stile e del linguaggio e si concretizza attraverso la messa in pratica di una straordinaria intuizione, quella di aver compreso le inedite possibilità offerte da un uso più spericolato della macchina da presa.

C’è un “lieto fine” nel film, è vero, ma assolutamente fittizio, addirittura “particolare” (quasi una  postilla per come è stato posto magistralmente “in calce”): un estraneo elemento di “riconciliazione” riparatoria, che diventa però in Murnau una specie di paradosso che contesta e diverge gli intenti “pacificatori” della produzione, finendo semmai per amplificare ulteriormente il conflitto, a renderlo palese, perchè il racconto è (e rimane) quello di una rovinosa capitolazione decretata dall’inesorabile legge del passare degli anni che arriva bruscamente a chiudere in negativo una integerrima e un po’spocchiosa parabola di lavoro e di vita, messa in scena con l’improvvisa caduta in verticale di un portiere d’albergo e del suo mondo spirituale che si sta sfaldando lentamente nell’indifferenza crudele di una società che non ha tempo né voglia di accorgersi di lui e delle sue pene, tesa principalmente com’è a ricercare l’(im)possibile principio di un “ordine” che si stava invece già pigramente disgregando, dissolvendosi inesorabilmente nel caos, preludio di una tragedia di ben più ampia portata e proporzioni, che avrebbe insanguinato il novecento, ma le cui matrici erano profondamente radicate proprio nella “Storia” e nei “fallimenti” anche ideologici di un popolo e di una nazione (si potrebbe al riguardo citare come riferimento certo di una sconfitta, Ernst Toller che in Oplà, noi viviamo mette in bocca al suo protagonista Karl Thomas che risponde alle domande sulle ingiustizie e le guerre che gli vengono poste dai figli della proprietaria della locanda dove aveva trovato alloggio, parole e concetti molto elementari ma di assoluta chiarezza: “(…) perché tutto questo? A che scopo tutto questo? Anche voi ve lo domandereste. (…) In tutti i paesi gli uomini si lambiccano il cervello su questa stessa domanda. In tutti i paesi diedero a se stessi una medesima risposta: per l’oro, per la terra, per il carbone, per il potere e l’egoismo, per una quantità di cose senza vita. E’ a causa di questo che ci sono uomini e donne che muoiono, che soffrono la fame, che c’è la disperazione impotente a rendere più pesante il fardello. Ma a un certo punto della storia, qualcosa cambiò e da ogni parte i più coraggiosi del popolo insorsero, chiamarono a raccolta i ciechi intorno al loro fiero diniego, e decisero uniti che queste oppressioni dovevano finire insieme a tutte le guerre, cominciarono a lottare per questo, per arrivare a creare un mondo nel quale tutti i bambini potessero vivere felici… Nel nostro paese però questi utopici eroi perdettero, furono sconfitti…Il popolo non capì perché lottavamo, preferì non vedere né riconoscere che erano insorti anche per la sua vita. Avevano avuto il cuore di osare ma erano stati stupidi a pensare di poter vincere e di cambiare le cose perché dall’altra parte erano molti di più ed avevano soprattutto denaro, potere, armi e soldati ben pagati…ed è stato così che la restaurazione ha avuto la meglio, ha preso il sopravvento ed ha aperto la strada a un domani che non potrà che essere  peggiore).
 
Il film di Murnau  si concretizza più o meno in un periodo analogo a quello in cui si  svolge il dramma di Toller (con un protagonista più vanitoso e sordo però),  anni cruciali e soprattutto di assoluta instabilità delle strutture economico-politiche della Germania post bellica, corrosa dai conflitti delle differenti posizioni ideologiche in perenne contesa e dall’inflazione schizzata alle stelle (va ricordato al riguardo che in Germania dopo la sconfitta degli Imperi Centrali, la borghesia che sembrava in parte domata, stava invece progressivamente riprendendo vigore con sorprendente, prepotente e rinnovata ingordigia a totale discapito di una classe operaia per qualche breve momento in posizione egemone nel suo generoso tentativo di creare maggiore “eguaglianza”, ma che proprio col movimento spartachista si sarebbe poi definitivamente sfibrata, soffocata dall’inefficienza e l’impreparazione, dal ricatto feroce del capitale, che l’avrebbe minata alla base decretandone l’annientamento. Infatti quel movimento che era riuscito ad alimentare le speranze di una definitiva rivalsa classista e popolare del paese, di fronte alla reazione armata della nascente socialdemocrazia si sfasciò invece  nell’impari scontro cruento, annullando così ogni possibilità futura di effettivo riscatto, ed aprendo di conseguenza le porte a tutte quelle istanze di ordine e di tranquillità che soprattutto in tempo di crisi e di privazioni, fanno sempre tanto presa sugli animi interessati dei borghesi, oltre che su quelli delle masse silenziose degli ignavi di ogni tempo, categoria nella quale rientra per molti versi e a pieno titolo anche il portiere dell’albergo del film di Murnau[1].
Di questa assoluta crisi di valori, Der Letzte Mann è dunque uno specchio preciso, allucinante e concreto, non solo perché riflette e “comunica” realisticamente uno stato di fatto politico-ideologico come quello della società germanica degli anni ‘20, ma anche e soprattutto perché attraverso la sua narrazione riesce ad offrire un’osservazione  più ampia e generalizzata delle cose. Semplificando, si potrebbe dire infatti che il regista tramite la mediazione di un microcosmo (le vicissitudini di un portiere baldanzoso, imponente figura di lacchè fiero di poter ostentare la sua condizione di servo, che tutte le mattine dà ai bambini del quartiere dei dolci, segno tangibile di una presunta posizione sociale erroneamente ritenuta preminente rispetto alle famiglie di quella marmaglia stracciona che gli tende le mai ossequienti, che viene messo improvvisamente a riposo - o meglio degradato a pulire cessi -  per cedere il passo a un aitante giovane più efficiente e “forzuto” perché ritenuto ormai inadeguato per sopraggiunti limiti di età a continuare a ricoprire quel ruolo che lo faceva sentire orgoglioso come un pavone che fa la ruota) racconta invece magistralmente e criticamente un macrocosmo sociale più vasto e variegato, quello costituito proprio dalla Germania di Weimar nel suo insieme, avvelenata e corrosa dai conflitti.
Poiché parliamo di cinema comunque, è  principalmente sul linguaggio filmico scelto dal regista per raccontare la sua parabola morale che è opportuno soffermarci, per verificarne soprattutto la sua efficacia esplicativa che è notevolissima, e soprattutto molto innovativa.
Possiamo allora evidenziare prima di tutto che, partendo proprio dalla situazione sopra descritta, per introdurci nel suo mondo di immagini decisamente elaborato e complesso, Murnau ricorre a due differenti modalità d’uso della macchina da presa, uno soggettivo-espressionistico  tipico del periodo, e l’altro (vera novità anche stilistica) oggettivo-naturalistico,  per altro realizzato con sorprendenti “intuizioni” che inventano e codificano la struttura formale del “movimento di ripresa”, e dove proprio quel lieto fine “brechtiano” (Pier Giorgio Tone) a cui accennavo in apertura, assume il senso di un importante elemento straniante, certamente “imposto” e avulso dal contesto, ma alla fine anche necessario per mostrare l’assurdità di ogni soluzione gratificante (conciliatoria) e introdurre un effetto “choc” che agisce come trauma stilistico, operando una cesura radicale nella continuità della trama narrativa che rivela la natura fittizia, artefatta, della vicenda, il suo essere cinema e non vita reale (che riesce di conseguenza a mettere in discussione la falsità di tutte quelle pellicole - soprattutto americane - con l’happy end progettato a tavolino imposto dal mercato in quegli anni, e più in generale, la mistificazione ideologica troppo buonista e rassicurante della cultura spettacolare destinata alle masse).
Alla base della visione assolutamente pessimistica dell’opera, c’è comunque anche una profonda e sentita polemica contro il culto delle apparenze (particolarmente radicato proprio nell’autoritarismo tedesco e guglielmino dell’epoca), vitalizzata però da una geniale preoccupazione di “innovazione” linguistica che il regista realizza ricorrendo a un uso simbolico delle angolazioni e a un’esasperata mobilità della cinepresa, spesso con l’ausilio di un carrello o una gru, che la fanno diventare un apparecchio “funzionale” con il quale – dichiarò lo stesso Murnau – si può raggiungere in ogni momento e con qualunque ritmo qualsiasi posizione di ripresa. E l’impiego che ne fa il regista è davvero strepitoso, con inquadrature dall’alto che cadono in verticale sul protagonista, o che in altre circostanze, al fine di far apparire davvero “monumentale” il personaggio, si animano invece dal basso ingigantendone la figura.
Perché l’importanza di questa pellicola non è solo di contenuto, ma anche e soprattutto stilistica e di  evoluzione del linguaggio cinematografico che si concretizza attraverso la messa in pratica di una straordinaria intuizione, quella di aver compreso le inedite possibilità offerte da un uso più spericolato della macchina da presa (sulla cui “immaginata”dinamicità fu proprio ristrutturata da Carl Mayer anche la sceneggiatura originale per renderla più adeguata alle nuove esigenze di regia). L’operatore Karl Freund (altrettanto talentuoso e inventivo) ricorda così quei quel percorso tanto significativamente fruttuoso: Da subito Murnau accennò al suo desiderio di poter contare su una cinepresa in movimento. Mi chiese di conseguenza  se mi sentivo in grado di filmare un’attrice utilizzando il piano americano, per arrivare a riprendere poi però con una carrellata in avanti solo il suo occhio da riproporre in assoluto primo piano (come succederà poi di fatto nel momento in cui la zia del portiere scopre che lui è diventato custode dei gabinetti) e di “gestire” un apparecchio che doveva necessariamente essere collocato sempre su una piattaforma fornita di rotelle. Gli risposi che mi ci sarei provato stimolato dall’ entusiasmo a fare questo innovativo esperimento ma senza una garanzia “certa” del risultato,  e così procedemmo all’unisono, ottenendo davvero esiti sorprendenti. La scena - la cito come esempio pratico e concreto - in cui il protagonista si ubriaca per disperazione, ne è un esempio lampante: l’attore rimane praticamente immobile mentre è invece e per la prima volta, la macchina da presa che barcolla, una vera e propria rivoluzione strutturale di ripresa che Marcel Carné (allora in veste di giovane giornalista del settore) salutò così nel 1929: Collocata su un carrello, la macchina da presa scorreva, s’alzava, si librava o s’insinuava ovunque il soggetto lo richiedesse. Non era più fissa, statica, ma partecipava all’azione diventava a sua volta un personaggio del dramma. Non erano gli attori a essere collocati dinanzi all’obiettivo infatti, ma era invece questo a sorprenderli senza che se ne accorgessero. Nel film, grazie a tale procedimento, veniamo così a conoscere sin nei suoi angoli più riposti il lugubre albergo Atlantic. Dall’ascensore in discesa, l’atrio ci appare immenso, con un rilievo accentuato dal movimento davvero straordinario, sino al momento in cui, avvicinandosi alla porta girevole, con una sorprendente continuità dell’azione, questa ci butta fuori, catapultandoci all’esterno, direttamente sotto l’imponente ombrello che Jannings tiene aperto per riparare i clienti dalla pioggia.
Uno strumento insomma che diventa davvero autonomo e personalizzato, capace di produrre immagini dotate di senso anche indipendentemente dal loro contenuto, e che consente l’esplicitazione tutta visiva (ma chiarissima) dei “movimenti” esclusivamente “creati” e sviluppati da una cinepresa davvero in totale libertà  come non si era mai visto prima di allora, finalizzata a  darci una esatta percezione della vita nella hall dell’albergo, della fittizia autorità del portiere, della degradazione che lo priva della sua identità e lo espone allo scherno delle risate dei vicini.
 
Tenendo sempre presenti le procedure previste per il Kammerspiel, Murnau pur concedendosi due luoghi d’azione differenti (l’albergo e l’abitazione del portiere), rispetta sostanzialmente anche qui la regola fondante delle tre unità, ma introducendoci comunque elementi fortemente simbolici, come appunto la porta girevole (leggibile come la subdola roulette del destino), ma anche il baule e la divisa, “suggerimenti” talmente evidenti (ed anche “rivelatori”) da permettere la totale abolizione delle didascalie. In questa pellicola infatti le immagini – da sole e senza altro supporto – riescono davvero ad esporre magistralmente tutto ciò che c’era da dire, e a rendere realisticamente chiaro il messaggio senza rinunciare per altro ad utilizzare i molti riferimenti  che sono riproposti sovente e a volte addirittura sottolineati, perfettamente riconducibili a codici di precisa matrice espressionista (i giochi delle ombre e dei riflessi; le deformazioni soggettive di alcune sequenze come quella dell’ubriacatura e del sogno; lo “sdoppiamento” del protagonista inizialmente osservato nella rappresentazione di una “pomposa autorità in divisa”, ma che si trasforma poi in una spenta larva informe e derisa).
Una storia dunque di spoglia semplicità che ruota intorno a un personaggio emblematico e dove come si è visto, l’aggiunta “postilla” conclusiva da un lato accentua l’amarezza (appena  attenuata dal gesto di solidarietà  del guardiano) del finale “vero” (quello realistico), ma dall’altro si impone come una importante allusione rivelatrice, una vera e propria cartina di tornasole che mette in evidenza la natura fittizia della vicenda (il suo essere cinema insomma), che ripropone così la dialettica fra realtà e finzione sempre al centro dell’opera, e dove anche lo spunto polemico di partenza  (la mercificazione dell’uomo; il culto tutto tedesco per le divise come segno esteriore dell’autorità) si traduce in un apologo di assoluta e intensa drammaticità, perchè il portiere dell’albergo di Murnau non sa ribellarsi, sa solo fingere, è ossessivamente attaccato all’importanza strategica dell’apparenza:  torna a casa regolarmente vestito con la sua sgargiante divisa, e con quella già indosso se ne va al lavoro la mattina successiva, salvo togliersela poi prima di entrare della porta di servizio dell’hotel e scendere nell’abisso delle latrine con tutte le sue frustrazioni che gli incurvano le spalle.
Ma per comprendere appieno la dolorosa importanza per l’uomo di questa “finzione” e il parallelo “sociale” della cosa, è necessario  esaminare in dettaglio una scena fondamentale che descrive come meglio non sarebbe possibile fare il personaggio e le sue contraddizioni: quella che vede arrivare davanti all’hotel una macchina importante, che si presume essere di un cliente di assoluto riguardo. Ecco allora che il nostro portiere dopo aver ricevuto gli ospiti con la prosopopea che gli è abituale, e che sempre ostenta, per dare prova visibile della sua robustezza “servizievole”, afferra un grosso baule e se lo carica sulle spalle. Il peso del bagaglio è troppo greve però,  e l’uomo vacilla e sta quasi per cadere, anche se poi si riprende e sempre barcollando, riesce a raggiunge la hall. Non visto però il direttore lo ha spiato e quel barcollamento è sufficiente  a fargli prendere  adeguate decisioni. Finito il turno di lavoro il nostro uomo se ne torna a casa come al solito, camminando impettito e dandosi ogni tanto una spolveratine alle maniche perché si noti  ancor meglio la divisa gallonata, oggetto del suo culto e del suo prestigio.
Al mattino dopo però dopo la consueta  “vestizione” con la montura, quando arriva  davanti all’albergo, trova un altro se stesso, ma più giovane, che ha preso il suo posto, che passeggia impettito davanti  all’ingresso e sotto la pensilina, scappellandosi davanti ad ogni cliente che entra o esce dalla porta. Umiliato e offeso da quella avvenuta rimozione (che lo fa rsipecchiare “impietosamente” nella sua vanità); si ritira allora barcollando (questa volta sotto il peso della frustrazione) dietro un angolo della strada, da dove getta uno sguardo furtivo alla scena che gli sta di fronte,  dove invece ogni cosa si sposta con velocità frettolosa e indifferente come tutti gli altri giorni, senza alcuna diversa “emozione”: cavalli, automobili ed uomini, tutti indaffarati e sicuri, con un poliziotto che con piglio deciso ferma le auto per permettere a dei bambini di attraversare una strada che è tutta uno sfavillio ridondante di oggetti in movimento.
Murnau ha montato questa sequenza facendo seguire ai primi piani del volto esterrefatto del portiere che denota stupore ed impotenza, il vortice del traffico della strada, per farne una contrapposizione che evidenzia l’incapacità dell’uomo a capire e ad agire, a tornare a vestire i panni del suo ruolo di classe, ma che sottolinea anche con quella  connotazione di caos cittadino, l’estraneità, la violenza, l’insensibilità e l’indifferenza volgare della società e del mondo che lo circonda.                       
Anche in altre sequenze il potere metaforico si esprime attraverso associazioni paradigmatiche di concetti e situazioni molto dolorose come quella  ad esempio (ma ne potrei citare molte altre) in cui il protagonista-portiere cacciato nei cessi, entra da una porticina laterale dopo essersi tolto la divisa scintillante che continua strenuamente ad ostentare in pubblico, e mestamente, quasi ripiegato su se stesso, scende le scale che portano alle toilettes,  schiacciato sotto il peso della solitudine, dell’amarezza  dell’inconsistenza fallace dell’esistenza umana e del suo fallimento.                                                                                                                                                                                                                             
Il modello utilizzato da  Murnau, è nella sua semplicizzazione programmatica assai complesso, debitore di certe stilizzazioni rappresentative tipiche della corrente espressionista, ma che si riscontrano con una certa frequenza anche in  pellicole di altre cinematografie “parallele” di quel periodo realizzate in territori lontani (basti pensare al protagonista maschile di Greed di Stroheim, che analogamente dissolve la propria esistenza inseguendo un sogno di tranquillità borghese in questo caso frustrata dalla “rapacità” della moglie - o meglio dalla sua mania ossessiva di possesso - che trasforma un timido individuo nella belva feroce di un uxoricida: crollato il suo sogno, la realtà assume per lui caratteristiche così spietate da spingerlo verso una degradazione psico-fisica che lo farà precipitare nella follia).
Murnau non arriva ovviamente a tanto nel  presentarci il decadimento umano di un “eroe” leggibile comunque in negativo, ma il concetto alla fine non è molto dissimile mi sembra, proprio per quell’analogo barcamenarsi quasi schizofrenico fra la realtà e l’utopia optando sempre per il compromesso dell’apparenza che si differenzia dall’evidente sostanza delle azioni.
E in Murnau c’è poi la straordinaria poesia della sua personale visione  delle cose  a rendere ancor più  stridente e penoso il contrasto: la città rutilante, l’incrociarsi di auto e di tram nelle strade, poi di nuovo le case, gli esterni senza calore che diffondono solo rumori aggrovigliati, il grigio sempre uniforme e costante un (non)colore tanto caro anche a  Grosz  che lo ha utilizzato proprio per dipingere le facce dei suoi mostruosi borghesi, che è poi quello che domina e appiattisce anche i pensieri della gente (persino del “comune spettatore” che osserva dalla sala, oserei asserire), specialmente quando la cinepresa si sposta per uscire dalla via affollata e centrale per entrare nei sobborghi maleodoranti, o quando si concentra sulla porta a bussola dell’albergo sempre centrale nella storia o sulla hall dell’albergo ripiena di manichini saltellanti che riflettono angosciosamente l’insensibile boria di un modo in disfacimento descritto minuziosamente con sensibilità e precisione, che spazia dal guardaroba alle latrine, compresa la pervicace arroganza del direttore.
La poesia  anche dei sentimenti però, espressa magnificamente attraverso il volto e gli atteggiamenti delle persone: gli insistiti primi piani sul protagonista, che si concentrano spesso sui suoi sguardi orgogliosi o smarriti, capaci di far trasparire i grovigli contorti di ciò che si annida nel profondo dei suoi pensieri tormentati; quelli sugli occhi sfavillanti di rabbia del direttore; sulla felicità beata della moglie del portiere quando ogni mattina vede l’imponente figura del marito uscire di casa, o quella altrettanto importante sull’esuberante allegria di quei bambini con le mani protese verso la solita manciata di caramelle come in un rito ripetitivo sempre uguale a se stesso di cui nessuno si domanda il perché,  ma che viene accettano passivamente e di buon grado quasi come una specie di “risarcimento” dovuto.
L’ultima risata è dunque per più di un verso davvero un grande film, un’opera che un team di eccellenti artisti in stato di grazia – non solo Murnau  ma anche Mayer, Karl Freund  ed Emil Jannings –  eleva  così tanto in alto, da farle alla fine toccare davvero la sublime vetta del capolavoro. E’ al tempo stesso però, anche uno degli ultimi sospiri “esorcizzanti” (ancora Salvadori) ed angosciati che un uomo di cinema e di cultura importante e accorto (quasi preveggente)  come Murnau (intellettualmente forse più vicino a Thomas Mann che a Grosz o a Brecht) esala al capezzale della Germania pre-nazista. Un sospiro che è un avvertimento preoccupato e impotente sulla imminente catastrofe di un mondo che sta perdendo piano piano ogni parvenza di dignità (esattamente come quel portiere degradato), e che fa già percepire in nuce il cataclisma sociale che di là a pochi anni si abbatterà davvero sul quel paese (Noi viviamo in tempi di transizione[2], reiteravano ossessivamente come in una litania i versi di una canzone del Cabaret Berlinese di quegli anni…: pronti non siamo ancora pronti). Murnau  sembra infatti già percepire il  “male”, ma nella sua dolorante sensibilità, sembra essere subentrata quasi una specie di impotente  rassegnazione dalla quale  traspare e prevale un senso di sgomento forse dovuto alla cosciente consapevolezza di non essere in grado di avversare, ma nemmeno di comprendere le complesse strutture di un mondo tanto aggrovigliato che stavano rendendo possibile e soprattutto fecondo il ventre del mostro (Brecht) fino a farlo deflagrale con il suo bagaglio di morte e distruzione. Di fronte alla terribile evidenza delle cose, al degrado anche morale del paese, all’ineluttabilità della tragedia, non gli resterà allora altra soluzione che fuggire lontano da quel “male” che non si può più “esorcizzare “ per proseguire in America il suo percorso artistico, restando però sempre  “segnato” da quegli incubi raccapriccianti che lo perseguiteranno fino alla tragica fine dei suoi giorni, esattamente come l’ombra mefitica di Nosferatu , un altro potente avvertimento inascoltato che continuerà a proiettarsi con tutta la sua ambigua valenza disturbante, persino su quella terra così lontana e (in apparenza) tanto accogliente ma ugualmente infida.


1 Note storiche : Nel 1914 l’arciduca Francesco Ferdinando viene ucciso a Sarajevo. E’ l’occasione che la Germania cerca per poter scatenare la guerra. I socialdemocratici di centro prevedendo lo scontro con le potenze dell’Intesa, avevano già provveduto ad incoraggiare la classe operaia a cooperare in difesa del paese, ed al Reichstag fu per questa ragione solo una minoranza quella che si oppose al voto sui crediti di guerra. Liebknecht cercò invano di spingere il partito a dichiararsi contrario alla concessione dei crediti. Il partito però non potrà che spaccarsi su questo, con la sinistra che si svincola definitivamente dall’apparato socialdemocratico.
Il 1° gennaio del 1916 si riunisce a Berlino la conferenza del gruppo “Internazionale” cui partecipano anche Liebknecht e Mehring. In tale circostanza, viene decisa la parola d’ordine “guerra alla guerra” e si opta per pubblicare regolarmente quelle “lettere politiche” scritte da un ignoto redattore,  quello “Spartaco” che dette poi il suo nome ai gruppi “Spartachisti”. E’ ancora in quell’anno che Rosa Luxembourg pubblica la sua “Crisi della socialdemocrazia, mentre il partito espelle dalle sue file coloro che non hanno votato a favore del governo. Gli espulsi formeranno così una “Comunità socialdemocratica” di orientamento centrista dalla quale più tardi nascerà il partito indipendente (USPD) sostenitore della pace immediata.
Gli anni fra il 1917 e il 1918 furono segnati (e condizionati) dalla rivoluzione russa (i 10 giorni che sconvolsero il mondo) con echi che non mancarono di farsi  sentire anche nei vari movimenti operai – USPD compreso – della Germania. In particolare, il movimento operaio più radicale, sull’onda dell’entusiasmo per la positiva conclusione di quella rivoluzione epocale, organizzò una serie di scioperi su scala nazionale ai quali si unirono poianche i marinai. Le agitazioni però vennero ben presto soffocate, ma ripresero con maggior vigore e violenza nel gennaio del 1918, quando 400.000 lavoratori dell’industria bellica scesero in sciopero a Berlino. Il 28 gennaio è la data che vede nascere il primo consiglio operaio berlinese che chiede pace senza annessioni e danni di guerra e pretende la democratizzazione degli organi statali. Lo sciopero si propaga per tutto il paese, ma è soprattutto a Berlino che la situazione diventa fortemente critica. La città è in stato d’assedio e le fabbriche passano sotto il controllo militare. Visto il caos, l’ala destra della socialdemocrazia  cercherà così di domare la rivoluzione parlamentarizzando la monarchia. Il 3 ottobre quindi il nuovo cancelliere Max von Baden chiamerà al governo Scheidemann (socialdemocratico) e Bauer (sindacalista), una decisione però non sufficiente per placare gli animi. Il 7 di ottobre si riuniranno così nella illegalità, i gruppi spartachisti  per definire il loro programma di lotta.
Ci sono però in parallelo anche le rivolte dei marinai del Baltico chiamati dallo Stato Maggiore  per effettuare un attacco di massa, che trasgredoranno alle disposizioni ricevute, rifiutando di muoversi e bloccando le navi. La rivolta, sedata una prima volta , riesploderà comunque nuovamente nel novembre a Kiel, quando le truppe inviate contro i marinai, fraternizzarono invece con gli insorti.. Nonostante le repressioni destrorse, le rivolte si estesero così un po’ da per tutto: il 7 novembre sarà la volta di Monaco con 200.000 dimostranti che assaltano le caserme e le prigioni militari, mentre la Baviera vierrà proclamata repubblica democratica.
A Berlino però il governo con la collaborazione dei socialdemocratici di  destra, tenta di isolare la capitale dal resto del paese censurando la stampa e cercando di influenzare l’opinione pubblica con una serie di provocazioni. Karl Liebknecht e i dirigenti dell’USPD proclamano così uno sciopero generale per il 9 novembre che il potere vorrebbe soffocare nel sangue, ma i soldati si rifiutano – tranne che in un caso – di sparare sui dimostranti. Berlino è così definitivamente nelle mani degli  spartachisti, con l’abdicazione del Kaiser quasi in contemporanea. La conseguenza, sarà il passaggio del potere nelle mani del Cancelliere Ebert., il cui preciso compito è quello di provare a stabilire la continuità con il vecchio regime e di salvare il salvabile. Mentre Liebknecht dichiara che la Germania sarà una repubblica libera e socialista, Ebert si affretta  invece a far proclamare da Scheidemann la “libera repubblica tedesca” arruolando nelle sue fila alcuni dei membri dell’USPD che avevano preso parte alla rivolta e che tradiscono così la rivoluzione intrapresa. Per salvare il salvabile, si vara di conseguenza un governo provvisorio di coalizione fra le forze politiche di centro-sinistra, mentre il Kaiser lascia definitivamente il paese (il 10 novembre) per l’Olanda e poco più tardi viene ratificato l’armistizio.
La reazione  sembrerebbe così sconfitta, ma Ebert ha già stabilito con i rappresentanti del potere appena esautorato, una linea di condotta intesa a raggiungere differenti obiettivi (i rivoluzionari del consiglio operaio vengono esautorati; si riafferma l’ordine gerarchico nell’esercito e si decide di utilizzare le linee ferroviarie per il rimpatrio delle truppe che avrebbero dovuto invece presidiare le zone calde del paese). Non tutto è perduto però perchè le organizzazioni sindacali finalmente riconosciute come rappresentanti degli operai, riescono a  firmare un accordo con i rappresentanti dell’industria che fissa nelle 8 ore la durata della giornata lavorativa e garantisce alcune previdenze sociali.
L’11  novembre viene proclamata la “Lega Spartachista”, mentre Rosa Luxembourg appena scarcerata spera di poter cooptare nella Lega anche una parte dei membri dell’USPD. Il congresso nazionale dei Consigli degli operai e soldati, tenuto a Berlino dal 16 al 21 dicembre, si divide però su una questione fondamentale come quella della gestione politica del paese. Mentre la maggioranza vota in favore delle elezioni generali, i minoritari che non d’accordo, vengono completamente privati dei loro poteri decisionali, il che non può che generare una scissione che porterà alla nascita  (il 30 dicembre) del partito comunista tedesco.
Il 4 gennaio del 1919 con la destituzione del capo della Polizia di Berlino, il socialdemocratico di sinistra Eichhorn, è chiaramente espresso il proposito reazionario che si vuole perseguire. Considerato un vero e proprio atto provocatorio, la destituzione spinge i leaders spartachisti a mobilitare di nuovo le masse contro il governo. Dopo i successi iniziali però le ingenti forze della repressioni  avranno la meglio e gli spartachisti verranno annientati nel sangue che porterà anche all’assassinio (il 15 gennaio) di Rosa Luxembourg  e di Liebknecht. In un clima ormai totalmente controrivoluzionario, le elezioni non potranno che sancire un risultato: quello che porterà (il 19 gennaio) alla nascita della Repubblica di Weimar.
La situazione economica della Germania, oppressa dai danni di guerra da pagare ai vincitori, è catastrofica e l’inflazione viene presentata al paese come un male inevitabile (ben trecento fabbriche saranno incaricate di produrre moneta sonante e 150 tipografie di stampare banconote) e i prezzi saliranno alle stelle. Già nel 1920 saranno   dieci volte più alti che nel 1910, mentre nel 1921 si raddoppieranno addirittura rispetto all’anno precedente e nel 22 diventeranno 40 volte più elevati, tanto che nel 1923  il pane si arriverà a pagarlo con bilioni di marchi e l’inflazione tocca vette davvero inaccessibili. Il paese è così scosso da nuovi scioperi che porteranno alla formazione di governi locali operai in Sassonia, Turingia e Amburgo.
Il 15 novembre finalmente il marco riesce a stabilizzarsi grazie ai finanziamenti del piano Dawes, e l’industria tedesca riprende al sua marcia. Sono quelli gli anni della concentrazione industriale dei grandi monopoli che vedono comunque fallire clamorosamente il Putsch tentato da Hitler e Ludendorff.
Fra il 1925 e il 1926 con Hindenberg nuovo presidente del Reich, il numero dei disoccupati torna a crescere, mentre l’esercito nonostante i divieti imposti dalla pace di Versailles,  prova sotterraneamente (ma non tanto) a riorganizzarsi e il problema della confisca dei beni imperiali posto dal partito comunista, porta il governo sull’orlo della crisi.
Nel 1929 ci saranno nuovi scontri a fuoco con la polizia che vieta le manifestazioni per il 1° maggio sparando addirittura sugli operai che disattendono il divieto. Il bilancio di sangue sarà davvero pesante (33 morti), mentre si profila all’orizzonte lo spettro della grande crisi con il crollo di Wall Street in America e una conseguente ripresa vertiginosa della disoccupazione anche in Germania.
Col governo Bruning (e siamo ormai arrivati al 1930) ha inizio il progressivo smantellamento di ogni forma di  democrazia parlamentare. I leader ella socialdemocratizzazione del paese, tollerano comunque  queste interferenze reazionarie considerandole un “male minore” di fronte al pericolo nazista che già incombe. Quando però il Reichstag non vota la legge eccezionale prevista per far fronte alla crisi, Bruning scioglie il parlamento, così che le successive elezioni sanciranno una nuova pesante avanzata dei nazisti, una  situazione che porterà il paese praticamente in uno stato di  vero e proprio assedio.
Fra il 1931 e il 1932 la mancanza di posti di lavoro e vari rimpasti nel governo, gonfierà  il numero dei disoccupati alla cifra record di oltre 5 milioni, con  licenziamenti in massa che proseguono incessanti e il  blocco dei salari che acuiscono ulteriormente la crisi e la disperazione.
Con le nuove elezioni messe in campo toccherà a Von Papen ad assumere il ruolo di nuovo cancelliere, ma saranno i nazisti che ce la faranno ad entrare in massa e in pianta stabile nel governo.
Il governo regionale prussiano, retto da una coalizione di sinistra viene di conseguenza sciolto d’autorità, mentre la polizia prussiana passa alla dirette dipendenze del governo centrale. La socialdemocrazia, immaginando di poter ancora  governare legalmente, indice nuovee elezioni (31-7-1932) che vedranno il partito nazista raddoppiare i suoi voti e raggiungere i 13 milioni di elettori. Il movimento operaio abbandona così  definitivamente la socialdemocrazia e si raggruppa intorno al partito comunista che nonostante gli appoggi e l’impegno (5 milioni di voti nel luglio del 1932; addirittura 6 milioni nel novembre dello stesso anno)  è comunque impotente a fronteggiare l’avanzata del nazismo finanziato dai grandi monopoli malgrado lotti strenuamente e fino in fondo..
Il 30 gennaio del 1933, Hitler viene infine nominato cancelliere del Reich, e il dado è definitivamente tratto costringendo il mondo intero a pagarne il fio.

[2] K. Tucholsky – H. Eisler, Oggi tra ieri e domani (1932)

Su Emil Jannings

Parlando de  L‘ultima risata non si può però fare a meno di segnalare la straordinaria, prepotente rilevanza del suo interprete principale, un Emil Jannings di eccellente levatura. Interprete di rango superiore, si conferma davvero “indispensabile”  nel rendere magistralmente la pomposa presenza del pavone che solo la livrea rende davvero imponente e il suo diventare all’improvviso spennato, un piccolo uomo spezzato  dalla schiena curva, figura eponima  massiccia e di magniloquente sobrietà (Sadoul) testimone di un dramma sociale e personale,  che solo di rado si abbandona al gigionismo, per realizzare invece con un marcata sobrietà partecipativa emotivamente pregnante, un personaggio controversamente credibile, che rappresenta davvero uno dei vertici assoluti della sua arte recitativa.

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