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Melancholia

Regia di Lav Diaz vedi scheda film

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La recensione su Melancholia

di AtTheActionPark
8 stelle

Ogni film, per Lav Diaz, è un passo verso la totale frantumazione del racconto. Forse, un giorno, il più celebre regista filippino vivente, ci darà un film in cui ogni sequenza resterà slegata dall’altra, per galleggiare unicamente nel “tempo della visione”. Un regista, Diaz, che proprio sulla funzione cinematografica del tempo continua ad insistere testardamente: i suoi film sembrano infatti suggerirci che, per sovvertire politicamente i meccanismi (stanchi) della visione spettatoriale, non serve più solo la reiterazione del tempo morto, né tantomeno la struttura “aperta”: piuttosto, il film deve diventare uno sterminato corpus instabile, frammentario, profondamente slegato in se stesso. Infatti, se con Heremias Diaz rifiutava – dopo ben nove ore – di “chiudere il cerchio”, riaprendo addirittura il film con un nuovo plot, e con Death in the Land of the Encantos confondeva continuamente passato e presente, documentario e finzione, in Melancholia Lav Diaz raggiunge – per chi scrive - il più estremo grado di rarefazione narrativa.
Melancholia – e l’omonimia con il film di Trier è abbastanza interessante – è, appunto, un racconto sulle cause della depressione come perdità di identità e di coscienza di sé. Alberta e Nina cercano di superare il trauma della morte di un loro caro, entrato nei desaparecidos, interpretando pirandellianamente dei ruoli che, di volta in volta, vengono assegnati loro dall’artista Julian – sorta di alter ego del regista cinematografico. Ma la struttura metalinguistica del film non è, per Diaz, tanto il fine ultimo, quanto il punto di partenza per un film veramente costituito da «scatole cinesi» [Giampiero Raganelli, Il film in cui nuoto è una febbre], dove, però, non tutto può e deve combaciare. L’impossibilità del “farsi” del film è speculare alla melanconia - di Alberta, di Nina, ma anche della giovane Hanna - di dare un senso alla vita. Questa “frantumazione”, perdipiù, investe caratteri più generali, interpretando il trauma filippino dell’uragano Durian – “protagonista” del precedente Death in the Land of Encantos – quasi a sottolineare un’impossiblità di ricostituire i pezzi di un paese e di un’identita devastati.
Non meno “politico” del film precedente, con Melancholia Diaz fa nuovamente una radiografia (profondissima) del suo paese, non rinunciando allo stile che lo ha reso celebre nel mondo: l’uso dei tempi morti, che nel finale coi desaparecidos - forse a voler togliere qualunque spettacolarità alla guerriglia -, si fa quasi insostenibile, e il bianco e nero, che serve a confondere ambiente e personaggi.

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