Regia di Martin Scorsese vedi scheda film
Con Gangs of New York, Martin Scorsese ha intrapreso un percorso di normalizzazione culminato poi con The Departed, il peggior film della sua carriera. Sempre più simile a Woody Allen per come accumula un progetto dietro l’altro, perde mordente anche se prova a ricordarci il cineasta che è stato. Come nel caso di The Aviator, in Shutter Island non mancano momenti evocativi e potenti. L’incipit cupo e minaccioso e gli inserti onirici che omaggiano il cinema fantastico di Michael Powell sembrano preludere a un altro film. Non quello che si accartoccia in una spiegazione verbosa dietro l’altra per mettere in scena il dramma psicotico dell’ennesimo uomo che non c’era. Più che ai maestri del noir, citati sovente senza cognizione di causa, o al Sam Fuller di Il corridoio della paura, Scorsese pare guardare al Welles incompreso (e poco visto) di Il processo, che evoca in maniera calligrafica nella sequenza in cui DiCaprio si smarrisce nelle segrete del manicomio. Come Welles, anche Scorsese vuole evocare il dramma di un uomo posto davanti a una Legge imperscrutabile. Indeciso tra disubbidienza e rispetto della norma, preferisce rientrare nei ranghi hollywoodiani prima ancora che la sentenza sia emessa. Come un Uovo del serpente che non si schiude, Shutter Island offre piccoli pezzi di bravura assediati da un blockbuster in crisi d‘identità. Curioso infine il confronto con Adam Resurrected di Paul Schrader, ancora inedito da noi, la cui ambientazione psichiatrica, invece, vola altissima. E se fosse stato sempre Schrader il regista e Scorsese lo sceneggiatore?
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