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Madre

Regia di Joon-ho Bong vedi scheda film

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La recensione su Madre

di cheftony
8 stelle

“Do-joon, ti stai sforzando di ricordare quella notte, vero? Se ti viene in mente qualcosa, ricorda di dirlo solo a me. Solo a me. Capito?”

 

Yoon Do-joon (Won Bin) e l’amico balordo Jin-tae (Jin Goo) hanno una certa predisposizione a mettersi nei guai: dopo aver rischiato di essere investiti dalla Mercedes-Benz di un gruppo di abbienti pirati della strada diretti al golf, finiscono tutti al commissariato dopo che si è consumato un estroso tentativo di vendetta da parte dei due ragazzi. A causa di un’importante forma di ritardo mentale e di problemi di memoria, Do-joon è tanto abbindolabile da dover essere seguito costantemente da sua madre (Kim Hye-ja), una donna sola in là con gli anni, proprietaria di un negozietto di erbe medicinali nel loro paesino in Corea del Sud e, per arrotondare, praticante l’agopuntura senza licenza.
Do-joon si ritrova, una sera, a passare il tempo a bere da solo ad un bar perché Jin-tae gli ha dato improvvisamente buca. Durante il rientro a piedi verso casa, piuttosto alterato, il giovane intravede e segue una ragazza, Moon Ah-jung (Moon Hee-ra), fino a dei palazzi abbandonati. Al mattino successivo Moon Ah-jung viene rinvenuta cadavere, esposta goffamente sul tetto di uno di quei palazzi diroccati. Gli inquirenti non hanno dubbi, avendo trovato sul luogo del delitto una pallina da golf con sopra impresso a pennarello il nome di Do-joon; il ragazzo viene arrestato sotto gli occhi sconvolti della madre e condotto in carcere, dove firma una confessione già scritta dagli investigatori (in)competenti.
Fermamente convinta dell’innocenza del figlio – nonostante questo abbia solo vaghi ricordi di quella notte – la madre si prodiga per procurargli un avvocato, per sollecitare il riaffiorare di dettagli utili, per consegnare il colpevole alla giustizia. Il suo amore materno è tale da non potersi fermare di fronte a nessuna verità…

 

 

“Mi interessava portare il ruolo della madre in un posto molto più oscuro e portarlo più in là che potevo. Credo che in circostanze estreme le madri farebbero di tutto per i loro figli. È molto commovente, ma può anche essere piuttosto spaventoso.” [Bong Joon-ho]

 

Reduce dallo stratosferico successo di “The Host”, una graffiante satira sociale – e a tratti salacemente politica – travestita da monster movie d’intrattenimento, Bong Joon-ho si rimette al lavoro su una sceneggiatura in lunga gestazione. Tutto ha avuto inizio nel 2004, poco dopo la sua esplosione con l’eccellente “Memories of Murder”, allorché il regista coreano incontra l’attrice Kim Hye-ja e la convince a prendere parte ad un film totalmente incentrato su di lei; Kim Hye-ja non è un’attrice qualsiasi: in Corea del Sud è nota fin dagli anni ‘70 come archetipico personaggio materno, generoso e positivo in svariati sceneggiati televisivi. È lei l’inamovibile punto di partenza per lo sviluppo della storia e del progetto del film “Mother”, presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard nel 2009. Una madre-modello che qui si fa tanto universale da essere anonima, di cui Bong Joon-ho si diverte a mostrare un lato nascosto, inquietante e perverso. Quanto in là può spingersi l’amore di una madre?
Il quarto lungometraggio di Bong Joon-ho è un film su un rapporto genitoriale-filiale riccamente caratterizzato: senza voler scomodare l’arcinoto complesso di Edipo, fra Do-joon e la madre intercorre una bizzarra mescolanza di stretta dipendenza reciproca, possesso e anomala tensione sessuale (emblematica la scena in cui, al rientro dalla fatidica notte in cui si consuma l’omicidio, Do-joon si corica a fianco della madre e le appoggia una mano sul seno). Prima ancora che il figlio finisca in prigione, la madre osserva, scruta, controlla, indaga, si prende cura morbosamente di un ragazzo ritardato che “non farebbe del male ad una mosca”. Come in ogni film di Bong Joon-ho, i protagonisti sono dei perdenti disgraziati alle prese con vicende più grandi di loro, sormontati dall’impatto con una realtà che li vede sgomitare, annaspare e talvolta soccombere di fronte all’evidenza della loro inettitudine. In questo caso, però, il personaggio della madre risulta più ambiguo, complesso e ferino di quanto ci si possa attendere.

 

 

Stante la validità delle penne dietro al film (lo stesso regista coadiuvato dalla sceneggiatrice Park Eun-kyo), un lavoro di questo tipo deve essere sorretto da solide interpretazioni: il ruolo di Do-joon è ricoperto con efficacia da quello che in Corea del Sud è un sex symbol straordinariamente famoso e al contempo riservato, vale a dire Won Bin, modello e attore (solo in una manciata di film) che manca dal grande schermo da una decina di anni. Già detto dell’importanza del fatto che la madre abbia le fattezze di Kim Hye-ja, è bene sottolineare quanto la sua interpretazione sia superlativa; l’impatto è forte fin dall’enigmatico incipit: abbigliata con una strana giacca viola su abito blu, la donna danza come in trance in un campo dorato sulle musiche del chitarrista Lee Byung-woo. Scopriremo poi che si tratta di un flashforward, per di più raccordato alla scena finale in autobus, il cui immaginario appare – per ammissione del regista – decisamente inusuale al di fuori dei confini coreani.
La messa in scena di Bong Joon-ho è ancora una volta straordinaria, variegata e matura: al consueto rigore nella composizione di inquadrature corali, presenti in particolar modo nella prima parte, abbina un’alternanza di campi lunghissimi e primi piani. L’insistenza sui volti – in parte coperti, celati o avvolti dalla penombra – gli consente di sviare con facilità, giacché nell’economia narrativa del film l’ambiguità, le false piste e la fallacia della memoria giocano un ruolo preponderante.
Bong Joon-ho ha sempre cercato di descrivere come istintiva la sua abilità nel creare un’insolita commistione di generi cinematografici e “Mother” sicuramente non fa eccezione: per quanto la definizione di genere possa andare stretta a questo tipo di cinema, è essenzialmente un giallo classico in cui ritroviamo spunti di dramma familiare, di film comico (per il terzo lungometraggio di fila assistiamo ad un'esilarante serie di calci volanti a metà strada fra il taekwondo e il teppismo da strada), di thriller psicologico con punte di violenza. Ad ogni modo, è senz’ombra di dubbio uno dei suoi migliori film.

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