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The Misfortunates

Regia di Felix Van Groeningen vedi scheda film

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La recensione su The Misfortunates

di Peppe Comune
8 stelle

Gunther Strobbe (Valentin Dhaenes) è uno scrittore di successo in preda alla difficoltà di essere padre e compagno affidabile. Mentre rimugina sulle sue inadempienze di uomo adulto, lo scrittore riavvolge i fili della sua adolescenza. Ricorda di quando venne abbandonato dalla madre e di quando da ragazzo (Kenneth Vanbaden) viveva insieme alla nonna Meetje (Gilda De Bal), al padre Celle (Koen De Graeve) e agli zii Breejen (Johan Heldenbergh), Petrol (Wouter Hendrickx) e Koen (Bert Haelvoet). Gli Strobbe, insomma, una famiglia molto sui generis, dedita all’alcool, al rutto libero, alla bestemmia come sfogo lessicale e al sesso praticato dove capita. La madre cerca di tenere a freno gli eccessi dei figli, ma ci riesce di rado. Gunther, invece, vive a contatto di tutto questo, e mentre sembra assecondare il tutto con una naturale partecipazione emotiva, sembra anche maturare il pensiero che non sarebbe poi tanto male cercare di fuggire quanto prima da quella gabbia di matti.

 

Koen De Graeve

The Misfortunates (2009): Koen De Graeve

 

 

The Misfortunates” di Fekix Van Groningen è un film che fa del “politicamente scorretto” una bandiera sventolata con ostentata fierezza, molto più incline a fare dei rutti liberi il modo più immediato e istintivo con cui i corpi rispondono presente ai litri di birra bevuta, che a fare dell’ubriacatura lo specchio dentro cui scorgere le sembianze deleterie dell’emarginazione sociale. Tema quest’ultimo che fa anche da sfondo alla storia, ma che è trattato un po’ alla maniera di un Charles Bukowski, ovvero, come un dato sociale che va fotografato possibilmente per quello che è, rifuggendo quegli stilemi tipici del “politically correct”, che tende a vestire di pietismo l’esistenza di chi si limita ad assecondare la propria condizione di marginalità attraverso gesti di istintiva trivialità, senza perdersi in futili recriminazioni e con il proposito di svoltare rimandato sempre al giorno dopo. Non sembra un caso infatti che il film venga raccontato in larga parte in terza persona, con la voce off di Gunther che ha affidato alle pagine del suo primo romanzo la narrazione senza censure della sua crescita esistenziale all’interno della strampalata famiglia Strobbe.

Il film oscilla tra il divertito e il malinconico, dove quell’aria prevalente che sembra far emergere l’intenzione di non volersi prendere troppo sul serio, in realtà mette in risalto il modo serio con cui viene tratteggiato uno spaccato di vita posto davanti all’irreversibile dominanza del vizio. La voce di Gunther fa andare il film avanti e indietro nel tempo e i momenti che ritraggono l’uomo adulto servono per mettere in relazione l’emancipazione intellettuale che il ragazzo ha saputo praticare anche grazie alle esperienze esplosive vissute all’interno della famiglia, con il lascito ereditario che comunque il padre e gli zii hanno lasciato indelebilmente dell’animo dello scrittore ormai affermato. Emblematiche in tal senso sono queste parole dette da Gunther nel momento stesso in cui nasce il figlio : “Sono due le persone che detesto. Sono due donne. Una mi aveva messo al mondo, l’altra aveva messo al mondo mio figlio. Si può dire che esiste un rapporto fra le due, ma forse è solo un’impressione. Lo spirito è confuso quando siamo sul punto di non essere più bambini e stiamo diventando padri”. Ecco, la difficoltà a crescere iniziando a prendersi le proprie responsabilità è il tema portante del film, una condizione esistenziale che se lo scrittore ha imparato a delineare con mirabile precisione descrittiva, l’uomo non riesce del tutto a governare. È pur sempre uno Strobbe, il membro più piccolo di una famiglia disfunzionale, che coltiva l’hobby dell’alcool bevuto senza limiti vissuto come una vera e propria ragione di vita. Come già accennato in precedenza, Felix Van Groningen non ne fa uno strumento di indagine dell’emarginazione sociale, ma come un vizio che si accompagna alla condizione di marginalità degli Strobbe e dal quale non mostrano alcuna volontà decisa di volerne uscire. Detto altrimenti, gli eccessi comportamentali sono vissuti come uno stato cognitivo e non come una condizione esistenziale. Loro sono così e non si preoccupano affatto di apparire diversi per compiacere chissà chi o cosa. Per loro, bere significa entrare in sintonia con quella parte di mondo che sa e può riconoscerli in ogni momento, significa essere sé stessi nell’unico modo in cui riescono totalmente a sentirsi a proprio agio. Il senso del limite viene superato quasi sempre, non perché questo può essere un modo per sfuggire dai problemi del quotidiano, ma perché quella modalità di vita è l’unica che li fa sentire autenticamente realizzati. È proprio questo a fare del giovane Gunther uno spettatore privilegiato delle stravaganze della sua famiglia, con una capacità maturata nel tempo ad assorbirne le asperità caratteriali senza lasciarsene schiavizzare. Prende il vero che esiste dentro delle vite vissute senza veli, marchiando sulla propria pelle la differenza che esiste tra gli sbandamenti in curva che fotografano la verità degli eccessi e il falso anticonformismo. Il ragazzo registra ogni cosa, i momenti di distruzione e i tentativi di rinascita (del padre soprattutto), che sono tanti quante sono le volte che i fiumi di birra hanno spazzato via ogni proposito di iniziare a provare vergogna per le intemperanze scaturite dagli eccessi.

Si diceva prima che il film è strutturato come se si trattasse di un romanzo letto ad alta voce. Un romanzo di formazione dove l’amore filiale emerge nonostante tutto. Perché dentro la complicità fatta di strambi tornei di bevute, bestemmie comminate a random e amplessi sessuali praticati dove capita, si tocca con mano la sensazione che ognuno si sente protetto solo nella comprovata lealtà di gruppo. Così come emerge la tenerezza dello scrittore che è spinto a ricordare senza mai provare rimpianti. Perché Gunther sublima la storia della famiglia in pagine che vogliono farsi ascoltare senza elemosinare commiserazione. Perché il senso del ridicolo è un fatto che può associarsi ad una vita vissuta in maniera accelerata e dove si fa poco o nulla per nascondere le cicatrici che appaiono sulla pelle, non una materia costruita ad arte per farci dell’anticonformismo d’accatto. Gunther Strobbe sembra seguire le orme del maestro americano. E Felix Van Groningen ne fa il tramite prediletto per un buon film.   

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