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Nemico pubblico. Public Enemies

Regia di Michael Mann vedi scheda film

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La recensione su Nemico pubblico. Public Enemies

di FilmTv Rivista
8 stelle

America 1933: sterminateli senza pietà. I gangster di Chicago, guidati da John Dillinger, rapinano banche in tutto il Midwest. Il nuovo direttore dell’Fbi, Hoover, mette in atto metodi scientifici: intercettazioni, rilievi e tortura dei prigionieri. Al suo uomo migliore, Melvin Purvis, il compito di braccare il fuorilegge. La mafia di Frank Nitti, ex luogotenente di Capone, intanto fa il suo gioco. Attenzione al dialogo tra Hoover e il giudice che non gli concede i fondi, a inizio film. C’è una delle chiavi di lettura: lo zar del Bureau non ha esperienza sul campo ma saprà utilizzare i media per creare miti positivi (se stesso, i G-Men) e negativi (Dillinger), inventandosi in diretta le campagne di stampa e il concetto di popolo/pubblico/audience. Esattamente come in Vincere di Bellocchio per il giovane Duce, peraltro citato come modello anche dall’Fbi del film di Mann. Ma è solo una delle travi su cui poggia un film magnifico e potente. Un’altra sono i personaggi. Quelli che danno senso alla storia sono, come recita un principio manniano, in seconda fila. Nel nostro caso Winstead (interpretato dallo splendido Stephen Lang), fatto arrivare dal Texas proprio per sopperire alla mancanza di esperienza di Purvis e dei suoi “dude” da quattro soldi. Uno sceriffo western che capisce perfettamente Dillinger (per esempio, ci vuole un vaccaro come lui per intuire che il nostro mai andrà a vedere un film con Shirley Temple!) e forse, al pari di Thornton, starebbe più a suo agio con il Mucchio selvaggio, dove almeno le donne non sono massacrate di botte. A lui, nel devastante finale, il compito di sussurrare parole d’amore a Billie Frechette, diventando per un attimo colui che ha ucciso. Un film perfetto, con un cast perfetto, una messa in scena perfetta (Johnny Depp alla proiezione di Manhattan Melodrama sembra Anna Karina davanti a Giovanna D’Arco in Vivre sa vie di Godard), un direttore della fotografia (Dante Spinotti) che se non vince l’Oscar è uno scandalo peggio del Watergate; insomma, l’ennesimo capolavoro del miglior regista sulla faccia della Terra. Volete trovargli un difetto? E sia: James Russo muore troppo presto.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 44 del 2009

Autore: Mauro Gervasini

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