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Nemico pubblico. Public Enemies

Regia di Michael Mann vedi scheda film

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La recensione su Nemico pubblico. Public Enemies

di ROTOTOM
4 stelle

Abbiamo così bisogno di capolavori che non esitiamo a incoronarne uno qualsiasi, pur di far sopravvivere il sogno.
Il languore melanconico che attanaglia qualsiasi appassionato di cinema tra un film di Mann e quello successivo è il responsabile del velo di indulgenza che veste l’occhio di ciò che vuol vedere nell’assistere all’ultima fatica del Maestro, Public Enemies.
 L’incanto svanisce presto però cedendo il passo alla perplessità prima, allo sgomento poi fino ad un filo di noia squarciato da chiassose sventagliate di mitra in Dolby Surround.
La grande depressione, prima degli spettatori, colpì l’America dei primi anni trenta. In quel contesto storico post rurale dall’identità confusa e in  trapasso verso la poderosa rinascita, sbocciarono fior fior di delinquenti eleganti spietati e belli. Organizzati e armati, sprezzanti nei confronti del sistema appena colto in flagrante tradimento e abbattuto dai contribuenti cornuti, divennero per quest’ultimi, il popolo bue, dei novelli Robin Hood che rubavano ai ricchi per  poi –ahimè-  tenersi loro il maltolto ma tant’è, in quel momento andava bene anche così.
Alla miseria quotidiana esibivano il coraggio canagliesco di una vita di pupe e abiti firmati, auto veloci e adrenalina, lusso senza freni. Una panacea dei mali del tempo concentrata e sparata in vena alla velocità di un proiettile.
Un bel periodo gli anni 30, così  ben connotati nell’immaginario collettivo come solo gli anni 80 hanno saputo fare nel secolo scorso per stile, musica, colori, facce e corpi. Connotati soprattutto dall’iconografia cinematografica e televisiva, non dall’esperienza diretta o dalla memoria, ovviamente. Ci hanno detto che erano così, crediamoci. Coi mitra Thompson, i cappelli a tese larghe calate sul viso, i soprabiti da gangster , le pupe, il malloppo.
Però.
Public Enemies è prima di tutto una lunga sfilata di moda, dove i mitra prendono il posto delle fibbie e degli orologi come oggetti fashion del tempo.
La fotografia (da Oscar, ovviamente) di Dante Spinotti pensata per dare un senso di immediatezza e di verità alla storia risulta troppo pulita e ricercata per raccontare una vicenda di gangster, iperrealistica fino alla leziosità non coinvolge emotivamente mentre la messa in scena non trasmette passione alcuna. Sembra incredibile ma la regia di Mann è puntuale quanto fredda, la mancanza di potenza evocativa delle immagini è disarmante.
Chi è rimasto abbagliato da Miami Vice e la sua carnalità; chi ha sofferto con Collateral lo scontro fantascientifico tra l’uomo di oggi e l’uomo grigio del futuro e si è commosso di fronte al coyote che attraversa la strada facendo implodere tutto il film in una immagine; chi ha ancora negli occhi Insider e Al Pacino che al telefono si fa sommergere dall’alta marea nel blu della sera; chi ha ancora negli occhi l’epica di The Heat e la sua fotografia scintillante, metallica; chi ha i brividi ripensando a Manhunter e all’incontro tra la ragazza cieca e la tigre addormentata…(potrei andare avanti) rimarrà sconcertato nel non ricordare nulla, ma proprio nulla di memorabile nelle immagini di questo film.
Ciò che irrita è la messe di luoghi comuni  affastellati l’uno sull’altro senza alcuna rielaborazione manniana, marchio di fabbrica del degno erede di Friedkin in quanto  a muscolatura registica, eseguendo con maestria un compito medio, di mestiere. Tutti difetti di una sceneggiatura stanca, protesa al medio soddisfacimento e all’immediata comprensibilità quasi inconscia di un pubblico mediamente attento, più attento alle mitragliate e ad ogni alzata di sopracciglio di  Johnny Depp che alla profondità dei personaggi.
 
A Mann è sempre interessato l’Uomo, le sue passioni incastonate nell’urgenza delle  azioni determinate dal  destino e contrapposte ad esso dalla forza della volontà, vuoi dell’amore, dell’etica o dell’onestà. Il tutto confezionato in una messa in scena che riscrive il genere nella furibonda forza evocativa delle immagini. In Public Enemies non c’è nulla di tutto questo, ci sono troppi personaggi  troppo simili (la banda di gangster) o appena abbozzati e quindi confusi e difficilmente riconoscibili l’uno dall’altro, senza una loro peculiarità a parte Baby Face Nelson che si ritaglia un po’ di gloria nel secondo tempo in un cameo folle alla "quel bravo ragazzo" Joe Pesci.  Il tentativo di coniugare la storia criminale con la Storia Americana riesce solo in parte, l’affresco risulta essere un fondale a due dimensioni sul quale si muovono i personaggi. Forse una presa di posizione più netta avrebbe giovato al film, la storia della nascita dell’FBI è infatti più interessante della storia di Dillinger, la storia della criminalità e del suo incredibile “sindacato” è spaccato americano che il personaggio di Dillinger non riesce a veicolare. Depp non si fa paradigma, si fa paravento e a volte vorresti che si spostasse un po’ dallo schermo per vederci dietro.  
La confusione regna, le scene si arruffano, lo sbadiglio contagia. L’estetica sfinisce, l’azione si inceppa poi svacca, gli attori ingessati si aggirano legnosi sul set. Non c’è mai silenzio, introspezione. I vuoti sono malignamente riempiti dalla insopportabile musica di Elliot Goldenthal invasiva e inutile nel suo tentativo di sottolineare i momenti di pathos. 
Non c'è paragone con la poetica dell'epica di Dominick in Jesse James e il suo amico-codardo-killer Ford. 
O con la cultura del polar e del cinema di genere di Richet con il suo  dittico Nemico pubblico n.1, tanto per fare due esempi recenti.
 
Gli anni 30 sono anche anni pericolosi da mettere in scena. Public Enemies sconta lo stesso difetto che ammorbò il pastrocchio di De Palma, The Black Dahlia. Estasi ed estetica non sempre si accordano soprattutto quando l’elemento catalizzatore, gli attori, risultano essere tutti totalmente fuori parte spostando l’attenzione dalla sospensione dell’incredulità alla personalità divistica degli interpreti che veicolano la loro immagine sul personaggio, non il contrario.
Johnny Depp non ha la faccia giusta per fare il gangster e la sua nemesi Bale, ficcato in gessati rigidi fa di tutto per dare onorabilità ad una parte scritta abbastanza male. 
La Cotillard è talmente improbabile come pupa del gangster che smuove al riso. Credo di non aver mai visto un tentativo di melò tanto maldestro e banale come la storia d’amore tra Dillinger e Billie. In una messa in scena che si propone come assolutamente fedele alla realtà,  le dinamiche con cui i due si conoscono e si amano sono ingiustificabilmente posticce. Una rielaborazione cialtronesca del mito di Cenerentola, condito da dialoghi mutuati dagli Harmony, deriva sentimentale del pulp in quanto a rozzezza e prevedibilità.
Solo nel secondo tempo e solo per qualche scena, il film rialza un po’ la testa. Quando si parla di meno, soprattutto la Cotillard. Quando l’azione prende il sopravvento sulle drammaturgia, (la sparatoria nel bosco) vincendola in scioltezza visto la pochezza del tutto. Quando le poche vere facce da film di gangster compaiono a dare credibilità e un minimo di spessore (Giovanni Ribisi e il poliziotto texano che uccide Dillinger, interpretato da Stephen Lang, canuto e con incredibili occhi azzurri tanto profondi, quanto esperti, pietosi, umani. E sono blu, guarda un po’ il colore che manca a questo film e che si ritrova per un attimo negli occhi di un comprimario che chiude il film).
Soprattutto quando l’Uomo si riappropria della storia e la storia si fonde col cinema riconciliandosi quindi con l’Autore.
Dillinger/Depp al cinema nell’eleganza di Clark Gable in Manhattan Melodrama   rivede la propria vita, trova corrispondenza del sé mito accanto al mito del cinema.  Finalmente Mann fa la cosa giusta, sospende la narrazione e attende la fine, quella che Dillinger attende per trasfigurarsi in icona. Quella che attendevamo anche noi, in sala.

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