Regia di Wilma Labate vedi scheda film
Dispiace non dire tutto il bene possibile di un film che, quanto meno, ha il coraggio di affogare nella Torino operaia, pressoché dimenticata dalla politica, dalla sociologia e finanche dall’ultimo cinema. Anche se lo fa tornando indietro, in quell’inizio di decennio dominato dall’edonismo reaganiano, quando a scendere in piazza furono i colletti bianchi, nell’ormai famosa “marcia dei quarantamila”. E dunque, dove sono i problemi? Nella scrittura, soprattutto, male endemico del nostro cinema post epoca d’oro. Personaggi tagliati con l’accetta, dove naufragano persino Gifuni e Timi, due bravi attori di solidissima esperienza teatrale. Famiglie stereotipate, a cominciare dal patriarca. E un contorno che non riesce a riportare alla luce quella particolare atmosfera che si respirava nelle fabbriche nei tempi gloriosi della classe operaia. A proposito: quanta nostalgia per il grottesco di Elio Petri, l’unica forma, insieme al documentario, in grado di scavare in profondità tra le pieghe di un mondo sul quale non è facile avere uno sguardo limpido e netto. Nell’incertezza dell’insieme si fa spazio solo il personaggio interpretato da Valeria Solarino: sia per la crescente consapevolezza attoriale della giovane, sia per l’affettuosa complicità che Wilma Labate le regala, senza se e senza ma.
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