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La ragazza del lago

Regia di Andrea Molaioli vedi scheda film

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La recensione su La ragazza del lago

di spopola
8 stelle

Un onesto ma prezioso manufatto tutt’altro che scevro da difetti, soprattutto negli “snodi” finali forse un po’ troppo repentini, ma la tensione è quella giusta e tutti i caratteri sono definiti con insolita precisione introspettiva. Il tracciato è quello dell’indagine poliziesca, ma con un’attenzione privilegiata per le atmosfere e i personaggi.

“La ragazza del lago” è un’opera particolarmente stimolante che colpisce soprattutto per la sua non omologabilità con quasi tutto ciò che da troppo tempo viene realizzato in Italia (fatte salve ovviamente le eccezioni che fortunatamente esistono, nonostante le “difficoltà” soprattutto produttive e di distribuzione ben evidenziate dalla recente “documentazione” di Iacona trasmessa sulla terza rete televisiva della Rai) che va a coprire sia pure marginalmente, l’assordante vuoto di un cinema medio di genere qualitativamente positivo, del quale avvertiamo sempre più la mancanza. Lontanissima dagli stereotipi di derivazione televisiva che inquinano una grossissima fetta (anche di successo) di ciò che “vogliono” far arrivare sui nostri schermi fra tutto quanto “potrebbe” essere realizzato (o magari è già disponibile ma rimane “nascosto” per la troppa miopia di chi non intende più rischiare), ci fa finalmente “respirare” una fresca boccata di cinema “vero”, di quello con la “C” maiuscola per intenderci, troppo spesso latitante dalle nostre parti e non solo. Intendiamoci, ci troviamo semplicemente di fronte ad un onesto ma prezioso manufatto tutt’altro che scevro da difetti, soprattutto negli “snodi” finali forse un po’ troppo repentini ed affrettati con più di una lacuna (o semplificazione) nella risoluzione anche “psicologica” del “rebus” poliziesco, ma ci fa ricordare, proprio nella sua “lineare semplicità” priva di artificiosi “preziosismi”, pur nella personalissima e strutturalmente ineccepibile “visione dell’insieme”, quelli che dovrebbero essere i fondamenti indispensabili per costruire la base di ogni storia da “raccontare” con la macchina da presa, in mancanza dei quali il cinema oggettivamente non esiste: c’è solo un surrogato di immagini in movimento - senza una adeguata sintassi di supporto che nobiliti e “giustifichi” l’operazione - tenute insieme malamente con lo sputo. Presupposti questi che spesso difettano clamorosamente alla nostra produzione locale (e che invece qui sono utilizzati tutti e in maniera esemplare) e che confermano come non ci si può assolutamente improvvisare “autori cinematografici” senza avere alle spalle solide preparazioni di organicità narrativa (anche gavetta) e un “disegno” chiaro di regia da mettere in pratica e da realizzare in corso d’opera. Il tracciato è quello dell’indagine poliziesca (genere poco frequentato dalla nostra cinematografia) ma con una attenzione privilegiata per le atmosfere e per i personaggi, per i loro “drammi” personali e per le loro implicazioni psicologiche, tanto che verrebbe da dire – al di là di ciò che si cela dietro le apparenze e viene progressivamente rivelato - che la soluzione (inevitabile) intesa come “identificazione del colpevole” è un elemento “necessario”, ma non del tutto indispensabile e del quale si potrebbe persino fare a meno, perché non è quello che conta (anche se al cinema non è quasi mai possibile rinunciarci) e dare nome e volto all’omicida, è in fondo un “orpello” in più, basterebbe la scoperta e l’evidenziazione delle “ragioni, delle “sofferte” necessità che hanno spinto a compiere l’atto, che presenta molti interrogativi – quelli sì inquietanti – che evidenzierebbero persino una qualche “indotta” complicità fra vittima e carnefice, quasi dal farlo ritenere una difficilmente decifrabile “conseguenza condivisa” di un atto d’amore. Il classico noir insomma (nel caso in esame, l’omicidio “anomalo” di un bella ragazza del posto, il cui corpo nudo viene ritrovato appunto vicino al lago), utilizzato come “cartina di tornasole”, il pretesto necessario per mettere a nudo e analizzare al microscopio i tormenti delle anime, per potare allo scoperto il groviglio inaspettato, le “pulsioni” ed i troppi “segreti” di complicati rapporti di famiglia e di laceranti “complessi di colpa”. L’appiglio “narrativo” insomma che consente di alzare il coperchio per far vedere finalmente ciò che bolle sotto l’apparente quiete della normalità. I riferimenti a Maigret e Simenon o al poliziesco atipico di Dürrenmatt sono ovviamente d’obbligo ed evidenti, i primi che vengono alla mente e anche io non posso fare a meno di evidenziarli con priorità assoluta, ma proprio per come procede il regista, mi sembra che oltre che scomodare questi illustri riferimenti, si può benissimo rimanere dalle nostre parti, raccordando il film con gli scarsi, ma pregevoli “precedenti” del settore al quale in più di una modalità si riallaccia, riprendendo - con proprietà di linguaggio e ottime capacità introspettive - quel filone e quelle modalità di scoperta indotta dei “tarli della società” da troppo tempo interrotte. Il commissario Sanzio è a mio avviso imparentabile anche e non solo per “coincidenze indotte”, con il doppio Ingravallo dei film di Germi (“Un maledetto imbroglio” da Gadda) e di Damiani (“Il rossetto”) o persino con il protagonista della “Donna della domenica” di Comencini (che trattava l’indagine in maniera ovviamente più leggera e “ironicamente dissacrante” grazie anche all’arguzia tipica del racconto di riferimento ad opera degli indimenticabili Fruttero & Lucentini) e può fare tornare alla mente le assonanze con il folgorante esordio di Petri e il suo “L’assassino”. Se me lo consentite però io il riferimento più diretto lo trovo proprio con una poco frequentata pellicola del 1965 - “La donna del lago”- di Luigi Buzzoni e Franco Rossellini con la Lisi e la figlia di primo letto della Bergman al suo esordio – e credo unico cimento - cinematografico (analogie immagino non casuali persino nel titolo), un singolare e “sfortunato” esperimento sorretto da una inusuale ricerca formale e una stilizzazione molto personale che ambirei rivedere. Qui le indagini erano portate avanti da uno scrittore anziché da un poliziotto, ma le procedure utilizzate evidenziano molti punti di contatto anche se quella vecchia pellicola prendeva spunto da fatti veramente accaduti (i cosiddetti misteri di Alleghe) e doveva fare i conti con che si era scritto sopra (Comisso in forma di romanzo e Sergio Saviane con una rigorosa inchiesta di taglio giornalistico). Ma torniamo a questo “La ragazza del lago” convincente opera prima di Andrea Molaioli , che potremmo definire soprattutto uno studio sulla famiglia e i rapporti interni fra “padri e figli”, una ragnatela di rancori, di traumi, di incomprensioni, di omissioni e di morbose attenzioni. Sono questi (e il delitto esaminato, la vittima, l’assassino, i possibili sospettati e persino il commissario sono parti integranti del mosaico, ciascuno con le proprie problematiche e i propri tormenti) a rappresentare l’anima di quest’opera insolita e appassionata, dall’andamento lento e analiticamente articolato, capace di seminare dubbi e incertezze, di porre interrogativi e domande alle quali difficilmente possono essere date univoche risposte, rappresentando un panorama delle insicurezze e delle disfunzioni problematiche che sembrano ormai inquinare e rendere sempre più difficoltosi i “contatti” generazionali per le troppe diffidenze o titubanze (o per le difficoltà a “comunicare” i sentimenti). L’ambientazione è particolarmente curata, diventa - come dovrebbe sempre essere - parte integrante del racconto, con le sue montagne, le sue radure, i boschi lividi e minacciosi, le increspature impercettibili della superficie di quel laghetto a sua volta “ferito” da un evento inaspettato che ne avvelena la placida compattezza rendendolo inaffidabile e insicuro come l’animo umano. Onore al merito del regista allora e alle sue capacità di costruire un’opera non del tutto compiuta ma dal “respiro” (finalmente!!!) internazionale, dove tutto è professionalmente ineccepibile, dall’ottima sceneggiatura di Petraglia “scintillante” e mai banale nei dialoghi (adattamento di un romanzo della scrittrice norvegese Karn Fossum, del quale pur italianizzandolo, non ha assolutamente tradito l’atmosfera di fondo rendendo inalterata l’unicità dell’inconsueta ambientazione) alla qualità delle immagini, alla sapiente scelta delle locations qui particolarmente”coincidenti”, senza dimenticare la “capacità” di costruire adeguate atmosfere di inquietudine della colonna sonora. Insomma niente è “ovvio” e scontato questa volta (vivaddio!!!) e anche la recitazione troppe volte “sciatta” e informe (dilettantesca) del nostro cinema autarchico, è qui di pregio senza deragliamenti nemmeno nei personaggi di contorno, con la punta di eccellenza del solito Servillo che disegna da par suo il profilo e la sostanza del commissario fra dolore, sbigottimento, rabbia e necessità di “capire”. Tra gli altri (tutti indistintamente professionalmente ineccepibili) voglio almeno ricordare il burbero e rancoroso Omero Antonutti, la “tragica” razionalità della Golino, il problematico Fabrizio Gifuni, la sofferta, stupefatta, inconsapevole Anna Bonaiuto oltre a Nello Mascia, Marco Baliani e via via tutti gli altri con una menzione particolare per i “giovani” a loro volta esemplari e insostituibili – ciascuno a suo modo - nel rappresentare il proprio fardello di incertezze e di confusione, anche di “incapacità” di rapportarsi con un presente sempre più sfuggente e insicuro.

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