Espandi menu
cerca
Follia

Regia di David Mackenzie vedi scheda film

Recensioni

L'autore

millertropico

millertropico

Iscritto dall'11 ottobre 2010 Vai al suo profilo
  • Seguaci 32
  • Post 2
  • Recensioni 306
  • Playlist 1
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Follia

di millertropico
8 stelle

Come ben sappiamo, Follia (Asylum in originale) è tratto dal romanzo omonimo di Patrick McGrath pubblicato in Italia da Adelphi, uno straordinario successo editoriale di qualche anno fa.

La trasposizione cinematografica che ne ha fatto David Mackenzie  riesce a restituirne perfettamente il clima, lavoro tutt’altro che facile considerata la complessità del testo di partenza e la particolarità della scrittura del suo autore.

Le atmosfere sono quelle giuste, il contesto e il periodo (un ospedale psichiatrico inglese degli anni ’50) correttamente rivisitati, ma credo che il merito maggiore dell’impatto empatico che la pellicola riesce a creare con lo spettatore, debba essere ricercato nella straordinaria prova degli attori a partire da quella davvero maiuscola della compianta Natasha Richardson che traduce magnificamente tutte le sfumature sfaccettate di un personaggio singolare e combattuto come quello che è stata chiamata a rappresentare sullo schermo.

Riportando il tutto all’essenza della trama vera e propria, si può sintetizzarne il senso dicendo che ancora una volta ci troviamo di fronte alla storia di un amor fou che possiamo davvero prendere alla lettera, perché ne contiene tutte le caratteristiche (e anche le conseguenze).

La retrodatazione agli anni ’50 di questo racconto emblematico di una “passione ossessiva", si è certamente resa necessaria già nel romanzo, per rendere credibilmente accettabile la struttura di un contenitore ambientale così importante per gli sviluppi degli intrecci anche amorosi, che è quello appunto del manicomio  (non è stato certamente stato fatto tutto ciò che avrebbe richiesto davvero la necessaria umanizzazione socializzante di questa istituzione coercitivamente repressiva ormai antistorica, ma è in ogni caso indubbio che il suo volto si è modificato moltissimo nel frattempo) e che narra le vicende di una insoddisfatta Stella, moglie di un illustre psichiatra di quel periodo più interessato alla carriera che alla consorte. Il nuovo incarico avuto dal marito, la costringerà a seguirlo assieme al figlioletto in un noto e un po’ all’avanguardia ospedale psichiatrico diretto dall’illustre dottor Cleave, all’interno del quale c’è anche - in una particolare posizione un po’ privilegiata di recluso - Edgard, un valentissimo scultore dalle forti pulsioni e attraversato da altrettante impetuose passioni, da sei anni lì rinchiuso per scontare la condanna inflittagli per aver massacrato  e ucciso in una escalation estremizzata di gelosia, la giovane moglie.

Da una parte dunque una “malmaritata”, come si definivano una volta queste donne trascurate e profondamente infelici, destinate ad essere relegate in una posizione fortemente subalterna come quella domestica di “madre” e “moglie” esemplare; dall’altra l’attrazione fatale che può esercitare su di lei un personaggio controverso e passionale come quello di Edgard con tutto il suo bagaglio di rabbia e sofferenza che si porta dietro.

Quasi inevitabile che fra i due nasca allora un amore che si trasformerà  in una passione travolgente destinata a sfociare a sua volta nella follia, anche perché a  tirare le fila delle cose (o meglio a far da burattinaio) c’è la figura ambigua di Cleave (è il personaggio che sostituisce la voce narrante del romanzo) che tesse le sue reti e manovra  fili e  leve a piacimento, luciferino deus ex machina dell’intera vicenda.

Naturalmente il rapporto fra Stella e Edgard non sarà esclusivamente platonico: se all’inizio la donna tenterà in ogni modo di respingere l’idea di rapportarsi e frequentare il paziente che la coinvolge emotivamente ma che le fa un po’ paura, la tentazione e l’attrazione saranno poi predominanti rispetto al raziocinio e tra i due si  instaurerà una relazione anche erotica furiosa e irresistibile, che ovviamente non potrà che avere conseguenze abbastanza  prevedibili, sempre con Cleave “in cabina di regia” ad osservare e muovere le sue pedine.

Il regista, utilizzando una sceneggiatura scritta da Patrick Marber e Chrysanthy Balis, gioca le sue carte migliori puntando soprattutto  sull’atmosfera e sull’interiorità dei personaggi per realizzare un’opera rarefatta e controllata, sia pure con qualche eccesso di decorativismo di troppo, capace di far nascere la tensione dalle situazioni, più che dai fatti veri e propri (anche se il pathos tipico del thriller è spesso in agguato): che sfrutta davvero molto bene puntando spesso sui particolari e le contrapposizioni (la scabrosità del furente rapporto amoroso rispetto al perbenismo del contesto; il fronteggiarsi di temi fondamentali ed antitetici come quelli della passione e della ragione, e i passaggi che mettono a confronto medici e pazienti dentro un ambiente chiuso e “impenetrabile” come quello in cui si trovano ad agire,  anche se con differenti ruoli, confinati nelle reciproche solitudini e costretti a vivere analoghe disturbanti frustrazioni).

Nessuno allora forse davvero è perfettamente sano là dentro e in questa storia, si potrebbe dire, riprendendo un concetto già espresso da Emanuela Martini proprio a proposito del film, che è poi quello con cui si potrebbe etichettare anche il mondo reale della vita dove risulta sempre più difficile precisare gli esatti confini fra la follia e la cosiddetta normalità, oltre che stabilire esattamente quelli che dovrebbero essere i rapporti relazionali fra le due condizioni, ammesso e non concesso che esistano diversità così “dichiaratamente certe” che li identifichino davvero.

Nel film comunque alla fine viene privilegiato l’aspetto prioritario degli stravolgimenti della passione che tutto sconquassa, rispetto a una analisi sociologica del problema che rimane molto più generica, a partire dal concetto di antipsichiatria, e dove anche il contrappunto ugualmente importante affidato al personale del manicomio, non è probabilmente connotato a sufficienza ed è principalmente infarcito di una rispettabilità di facciata indubbiamente molto british, ma  un po’ stereotipata, così da rendere non sufficientemente incisiva nemmeno la critica anti-borghese certamente forte nel romanzo, ma che qui traspare in maniera molto più marginale.

Un risultato comunque abbastanza intrigante (per non dire spiazzante) nonostante questi appunti, che coinvolge ed appassiona, sorretto da una bellissima fotografia “pastello” di Gilles Nuttgens, e dunque a conti fatti, un film che merita ampiamente la visione e il consenso.

Come già detto però, fondamentale è soprattutto il contributo degli interpreti: accanto alla già citata Richardson nel ruolo che a questo punto potrei definire “quello della sua vita”, vista la tragica e prematura dipartita che le è stata riservata dalla sorte, troviamo il grandioso, insuperabile  talento di Ian McKellan che definisce a sua volta con straordinaria aderenza la natura manipolatrice di una personalità controversa come quella del dottor Cleave, il volitivo Marson Csokas (Edgard), Hugh Bonneville (l’inerte e insensibile marito) e, sia pure relegati in ruoli minori, lo stesso Patrick McGrafh (uno degli ospiti del manicomio) e sua moglie Maria Aitken 

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati