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Out 1: Noli me tangere

Regia di Jacques Rivette vedi scheda film

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La recensione su Out 1: Noli me tangere

di EightAndHalf
8 stelle

<<Cercate di trovare la quiete attraverso la respirazione, la calma, la calma attraverso la respirazione. Adesso cercate di sentire il contatto che esiste tra la pelle con molta calma. Non è questione di suono, per il momento. È una questione di peso, solo di peso, che è sul pavimento, e che la pelle ha su quella degli altri. A partire da qui si stabilisce una circolazione forse di sangue, forse di fuoco, forse di qualsiasi altra materia. È una questione di peso. A partire da questa materia, lasciatela affluire da qualsiasi parte da cui viene. E quando comincia a penetrare gli associo un suono, forse una parola, forse una frase. Se è aria ciò che ricevo, se è acqua, se è fuoco. Gli do il passaggio attraverso la pelle, e poco a poco l’articolo>>.

Il livello 0 dell’arte, la metafisica del linguaggio artistico. L’arte di fare dell’arte, l’arte di concepire e definire l’arte. L’arte della recitazione. Rivette, tra i primi maestri della Nouvelle Vague, in “Out 1” illustra con articolatissima complessità il percorso per arrivare a quest’arte, un percorso che passa dalla comprensione della mente umana e della variabilità delle nostre emozioni, e anche come l’arte sia profondamente inserita nel tessuto dell’esistenza.. Dilungandosi nelle lunghe scene delle “prove”, vediamo gli attori protagonisti di questo film-fiume di dodici ore e venti sì provare direttamente il testo dell’opera, ma elaborare anche istinti impulsivi, come voleva il teatro d’avanguardia: distinguere il canto dall’urlo come distinguere la ragione dall’istinto, fare ginnastica rituale, simulare la mancanza e l’assenza di qualche arto, cambiare velocemente personaggio da interpretare, gesticolare a ritmo, recitare senza parole, come nel cinema muto, scambiarsi voce e corpo, immaginare il suono del mare, salutarsi in maniera originale (una scena esilarante), fare i mimi, rielaborare gli sguardi delle maschere greche (e a proposito di tutte queste sequenze è importante ricordare lo splendido lavoro di montaggio, che improvvisamente si vivacizza e poi torna statico), simulare la morte e l’inerzia, improvvisare in una “sincronia artistica-recitativa”, aggiornare ad oggi la mitologia, ritornare allo stadio 0, a origini primordiali e basilari, non destinate a evolversi, ma da recuperare, non per ricreare la vera realtà ma per stabilirne una nuova (quasi irrealistica). Partire dalla propria creatività, non seguire freddamente il copione, elaborare la ricostruzione della vita. Non è un caso che le due compagnie che Rivette insegue e tallona debbano recitare una tragedia greca quale i “Sette contro Tebe” una e il “Prometeo incatenato” l’altra, è un ritorno al teatro originario. E non solo originario perché greco, originario perché eschileo, il primo autore che conosciamo in assoluto. L’urlo iniziale che si riferisce ad Eteocle si impregna di un significato davvero profondo, poiché il personaggio “Eteocle” dei “Sette contro Tebe” si configura come il primo personaggio della storia del teatro occidentale, il primo a incarnare davvero principi umani e vitali. Si torna all’origine del contrasto fra i limiti apollinei e l’illimitatezza del dionisiaco. E l’istintualità dell’improvvisazione (quella che fa agire inizialmente i due attori che nominano Eteocle) è proprio l’istintualità dell’origine, della nascita della creatività logica, della capacità di elaborare qualcosa che simuli il vero. Non è meta-cinema, perché non si parla di cinema, ma non è neanche meta-teatro, perché è comunque un film. Prende in esame queste due arti così strettamente collegate, e mentre noi vediamo personaggi che nei loro “esercizi” attoriali annullano la loro identità (per un bel po’ non individuiamo i nomi dei personaggi “veri”, solo dal secondo episodio cominciamo a conoscerli), noi conosciamo quel limbo identificativo in cui gli uomini-artisti stanno a cavallo fra loro stessi e l’altro, conosciamo quella capacità sconvolgente di ricreare un’identità, e riproporla davanti agli occhi. Parliamo allora di meta-arte, specie per alcune citazioni pittoriche assai ben dissimulate (uno dei tramonti finali sembrano dell’impressionista Monet) e altre letterarie più esplicite. D’altro canto, se da un lato il processo è da sé stessi verso l’altra identità (imparare a recitare), dall’altro Rivette analizza il percorso inverso, riscoprire l’origine e l’identità, attraverso i personaggi di Colin (Jean-Pierre Léaud) e Frédérique (Juliet Berto), che fingono e recitano nel teatro del mondo civile e comune, ma di cui solo lentamente conosciamo la vera identità. Anche qui scopriamo che loro fingono, ma non sappiamo altro tranne che questo, e quindi li vediamo ancora una volta in un limbo che li associa agli attori, e li distingue dalla folla di uomini che restano stantii in loro stessi. Ma gli attori recitano insieme, in nome di quella “sincronia artistica-recitativa”, mentre Colin e Frédérique stanno soli, abbandonati lui nella sordità e nel mutismo (nel suo ruolo), e lei nella sua malinconica solitudine da giovane innocente (gioca da sola con armi giocattolo, gioca da sola a nascondino). Lui recita con gli altri senza parlare, lei basa tutto sul parlare. È un quadro generale di opposti.

Specchi di verità, tensione psicologica creata da una sovraccarica contrapposizione e da più cerebrali congiunture di realtà. Così le storie si intrecciano senza cedere alla banalità dei serial. Questo film è pura Nouvelle Vague, improvvisazione attoriale, riflessione sulla realtà di uomini poco importanti, poveri di qualità e di eccellenze, ma ricchi di vita, talmente da condividerla con altri e consegnarla alle altre identità dei loro personaggi. Iniziamo però con molto disorientamento, specie se si parla delle storie parallele, da un Jean-Pierre Léaud (finto?) sordomuto che infastidisce le persone ai tavoli dei bar (e non si può non trovare un legame con la storia dei finti handicap del gruppo teatrale che prova il “Prometeo”), e altri dialoghi da bar in cui vediamo l’estroversa Juliet Berto con sconosciuti, dialoghi recitati e stralunati, che a volte nascono dal riflesso in uno specchio quasi come il “Bar de Folies-Bergère” di Manet, e indietreggiano, come a completare il discorso dell’artista, concependo il cinema come completamento, come forma assoluta e definitiva dell’arte; altre volte sfruttano il teatro del reale, la scenografia della Nouvelle Vague. La Nouvelle Vague in sé è messa in gioco, l’aspirazione cinematografica (e il cinema è un sogno) di vedere la realtà. E il rapporto tra sogno e realtà è anche riproposto curiosamente in alcune situazioni in cui nella verità (della Nouvelle Vague) hanno luogo eventi assai simili a quelli improvvisati dagli attori (le scene riguardanti le due o tre domande, oppure nel continuo rimando ai Tredici). Per non parlare poi del fatto che nella realtà c’è quasi più intrigo e più “trama” (tra innamoramenti, ladri, finti ricatti e cacce all’uomo) che nell’elaborazione teatrale: d’altronde ognuno di noi nasconde, ognuno di noi recita, pirandelliscamente parlando. “Il sipario si apre su un’altra scena”, “il sipario si richiude immediatamente”, e questo lo dice Colin.

Eppure c’è uno strano limite che la realtà pone al sogno, all’illusione, l’impossibilità di riprodurre quella fiducia e quella vicinanza nei confronti di chi amiamo, l’incapacità di controllare gli istinti riprodotti, come se gli istinti non potessero essere riprodotti razionalmente, poiché vorrebbe dire controllarli, l’impossibilità di ritrasformare la nostra interiorità, dopo tutto noi stessi. Se anche riusciamo a trasformare la nostra identità, la nostra identità originaria rimane, permane in quella vicinanza di corpi sconnessi (la prima prova, lo straordinario limbo identificativo suddetto) che ritrovano fiducia nella vicinanza, nel rapporto sociale (d’altronde la recitazione la imparano in gruppi collettivi). “Noli me tangere” è l’espressione del contrario, un contrario che funziona per armonia come funziona la distanza fra i due diversi snodi narrativi, quelli del teatro e quelli della realtà, è un mancato contatto che per antitesi permette una connessione, un unione con l’altro.. Curiosi poi i sottotesti politici tipicamente post-sessantottini, a partire dalle osservazioni sulle differenzazioni sociali, dalla chiusura mentale e intollerante (il discorso insulso dell’etnologo) fino alla concezione dell’associazione (tutto il discorso sulla “Storia dei Tredici” di Balzac), che guardano a quell’attivismo sociale e a quella civile partecipazione che può associarsi anche a quella volontà dell’armonia, del rapporto interpersonale a livelli più generali. Si crea così uno straordinario ed armonico legame fra arte, utilità, vita. E nel frattempo è come se si concretizzi e allo stesso tempo si polverizzi, nella realtà, il sogno dei rivoluzionari del ’68, che vogliono cambiare le cose. Torniamo al rapporto fra sogno e realtà (il racconto di Renaud a Frédérique, lo strano cambio di nome da Pauline a Emilie), che rende il film non un semplice gioco intellettuale, ma qualcosa di veramente legato alla storia, all’uomo, a qualcosa di vero anche ad altri livelli. Come l’argomento nel discorso tra Lucie e Warok, l’utilità concreta dell’arte.

Dov’è l’essere umano in tutto questo incrocio di realtà? L’uomo è un essere in movimento, che cerca (realtà segrete, realtà alternative, persone vive e persone che vivono solo nei discorsi, come Igor), cerca perché è insoddisfatto della confusione, in sé e attorno a sé, ma finisce per incarnarla, e assecondarla senza risolverla (l’insostenibile ripetitività del dialogo fra Emilie e Sarah alla fine, l’attacco di Frédérique a Renaud, l’amor fou di Colin, la malattia di Thomas, la fuga di Lili e Béatrice). E dopo un finale ed insoddisfacente urlo liberatorio, la realtà riprende com’era, inconclusa, sospesa. La morte dell’ideale.

Rivette ci illustra, a partire dalla nostra realtà, il processo creativo e la profondità del vero, le coincidenze del caso senza controllarle, ma assecondandole, narrando anche il ruolo del denaro e della violenza. Un’esperienza densissima, rara e intrigante.

 

 

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