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La leggenda di Narayama

Regia di Keisuke Kinoshita vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La leggenda di Narayama

di precint13
10 stelle

Dopo essersi soffermato con due grandi film, The Garden of Women e soprattutto Ventiquattro occhi, sul viluppo di contradizioni dell'educazione scolastica giapponese (soprattuto in seguito alla diffusione su scala nazionale di idee comuniste dopo che il Partito, al termine della guerra, era uscito dalla clandesitinità e aveva ottenutto il d'esistenza legale), nel 1958 Kinoshita dirige quello che sarebbe poi diventato il suo film più famoso (e che sarebbe stato rifatto da Imamura nel 1983 con La ballata di Narayama), ovvero questo La leggenda di Narayama, tratto da un romanzo del 1956 (Le canzoni di Narayama) di Shichiro Fukazawa.
Girato con una folgorante fotografia a colori, ha la sua cifra stilisica principale nella compenetrazione tra cinema e teatro kabuki, da cui riprende in particolare scenografie e musiche (basti pensare alla figura del cantastatorie che assurge ad un ruolo di deuteragonista).

Il riferimento esplicito, nella sinossi, è alla tradizione dell'Ubasuteyama (Ubasute = "dove si abbandonano le vecchie"), il monte dove venivano condotti gli anziani in attesa di incontrare una divinità e trasformarsi in spiriti (ma c'è anche una ragione storica: l'anziano - inabile al lavoro - non poteva essere mantenuto a causa della povertà dei raccolti). Ne è protagonista l'anziana Orin, in procinto di ritirarsi a morire sul monte Narayama. A frapporsi fra lei e il suo proposito ci sono però due ostacoli: il desiderio di aiutare l'amatissimo figlio - rimasto vedovo - a risposarsi e quello di perdere i denti che, se ancora sani, in un anziano potevano rappresentare indolenza o addirittura malignità.
Quando finalmente avrà conseguito i suoi scopi, sarà il figlio a condurla in spalla fino al luogo dell'eterno riposo.

L'icastica e penetrante ispirazione alla grande tradizione kabuki permette a Kinoshita di evolvere definitivamente il suo stile. Interamente girato in studio per avere un controllo totale dell'immagine (carrellate ardite e ieratiche che mantengono intatta la perfezione compositiva del fotogramma), il film è effigiato da cromie nette e luci artificiali (l'esatto opposto di Una tragedia giapponese) che addirittura, con un semplice accorgimento tecnico, permettono di creare straordinarie dissolvenze già in fase di ripresa.
I temi forti di Kinoshita ci sono tutti: la povertà racconatata senza compiacimenti patetici, la figura dell'anziano e i limiti della sua conformazione (ruolo?) sociale, la terra come luogo della tradizione (e non si può non pensare alle opere in cui questa è messa in parallelo alla crescente industrializzazione della seconda metà del Novecento), la musica, da sempre utilizzata con esiti geniali (e, con una certo sforzo mentale, si può pensare, tra gli autori recenti, a Kaurismaki).
Straordinario nella lenta e solenne messa in scena (dove convergono con lancinante evidenza gli studi fotografici di Kinoshita), ha però il suo pregio più struggente e commovente nella prospettiva anamnestico/religiosa con cui racconta e innerva il tema della vecchiaia al cinema. Ed è per questo degno di essere accostato a film come Umberto D., Vita di O'Haru, donna galante, Vivere o Il posto delle fragole.
Opera formidabile, probabilmente non per tutti (intrisa com'è di vividi riferimenti alla cultura giapponese), è un capolavoro del cinema, giapponese e non, e segna un punto di non ritorno nella folgorante stagione di Kinoshita terminata con The River Fuefuki (1960), quella precedente alle produzioni televisive.

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