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Milano odia: la polizia non può sparare

Regia di Umberto Lenzi vedi scheda film

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La recensione su Milano odia: la polizia non può sparare

di scapigliato
8 stelle

Incredibile. Tragico. Coraggioso. Un film che ha in sè il gene della ribellione. Poca poesia, pochi paroloni, poca epica, ma tanta, davvero tanta crudezza. Sia nei gesti violenti del grande Giulio Sacchi alias Tomàs Milian, sia nell'atmosfera in cui vive la storia, quella di una Milano crepuscolare, grigia, fredda e sporca.
Lenzi ci tiene a dire che è più noir che poliziesco, ed è vero se pensiamo che il noir pensa di più al criminale e al suo mondo che al poliziotto, mentre il poliziesco, come dice la parola stessa, punta più sulla polizia, al detective e al suo rapporto col criminale. Ma fare tutte queste piccole sottigliezze a volte rischia di strappare un titolo importante come questo ad un "percorso cinematografico" di grande dignità come il nostro poliziesco (si può dire spaghetti-crime?).
Un personaggio, quello di un irraggiungibile Tomàs Milian, che non è una semplice maschera malvagia, un semplice "cattivo" di turno. L'attore cubano di Roma, crea un Giulio Sacchi feroce come un cane rabbioso che non ha nulla da perdere (dice nulla il recente Luciano Liboni? Strumentalizzato, demonizzato dai media e dai moralisti in divisa?), ma al tempo stesso riesce a sfumarlo di umanità, non nel senso che s'impietosisce o che ha sprazzi di lucida bontà, ma nel senso che le sue eferratezze non sono gratuite. Nascono da una consapevole condizione esistenziale, che trasmigra da quel corpo magro e isterico per finire nella società, attraverso il suo mitra, che diventa così un prolungamento (magari anche erotico) della rabbia cattiva dello stesso Giulio Sacchi. Parlo di erotismo perchè nel film sono presenti qua e là vari richiami ad una morbosità sessuale legata al cameratismo. Uno su tutti l'inizio delle sevizie nella "ambigua" famiglia borghese che poi i tre criminali trucideranno. Milian abbassa lui stesso la cerniera dei calzoni a Ray Lovelock, che era un po' il Di Caprio di oggi: bello, dai lineamenti fini e femminili. Ed è probabile, visto che non si vede, che sia proprio il personaggio di Giulio Sacchi a tirar fuori il membro all'altro rapitore (anche se poi nella realtà non c'è mai stata una cosa del genere chiaramente). Ma noi spettatori, attraverso la finzione del film, crediamo sia possibile. Quindi, diventa quasi automatico credere che gli sfoghi di violenza di Sacchi, che ammazza anche senza ragione con il suo mitra, possano essere un simbolo di potere e dominanza. E il mitra, quindi, diventa la concrezione del simbolo dominatore maschile per eccellenza: il membro.
Ma nonostante queste riflessioni audaci, che possono essere discutibilissime, il film rischia. Non c'è dubbio. Rischia. S'azzarda. Insinua. Sfoga tanta rabbia e violenza, come ai tempi ce n'era molta. E in più va evidenziata l'interpretazione proprio di Ray Lovelock (che con Milian lavorerà 4 volte, e con cui tutt'ora condivide una bella amicizia), che non è solo il bello della storia, ma sa caricare il suo personaggio delle stesse sfumature di quello di Giulio Sacchi, con l'unica differenza che quest'ultimo è un'icona indimenticabile proprio grazie al talento naturale di Milian (e pensare che il feroce Sacchi doveva essere Lovelock!).
La storia ricalca anche in questo caso un plot western: tre banditi, un colpo, la diffidenza che corre tra loro tre con conseguente regolazione dei conti, fino al "duello" finale tra Tomàs Milian ed Henry Silva. Sono fuori da un bar, che può essere un saloon; i clienti e conoscenti sfollano, come se sfollassero dalla via principale di un deserto villaggio della frontiera (come di frontiera è lazona milanese scelta per incorniciare il degrado della fine di Sacchi). Una sparatoria, secca e produttiva. Un criminale che muore nei rifiuti, come ha voluto sottolineare lo stesso regista.
Un film impeccabile quindi, si dice il migliore di Lenzi. E' indubbia l'arte e la maestria del regista, ma è anche vero che altri titoli dello stesso Lenzi siano importanti e fondamentali. L'impeccabilità del film non sta solo nel "mestiere" del genere, ma anche e soprattutto nelle tante idee e soluzioni narrative. Una in particolare, che marchia il film come noir più che poliziesco (anche se lo è comunque e lo sarà sempre), è il commissario Walter Grandi di Henry Silva. Non riesce ad indagare, non riesce ad acciuffare il criminale, lo sfiora e basta. Non ha tanto le mani legate come in tanti polizieschi, è che proprio è "impotente". E questa impotenza, in base al discorso di prima, può appunto avallare la direzione sessuale della rabbia di Sacchi/Milian e del film in generale. Anche se alla fine il poliziotto di granito si fa giustizia da solo (ed erroneamente l'accusa di fascismo pioveva dagli intellettuali di sinistra poveri da sempre di estro narrativo, e sempre e solo politicamente corretti -e dire che ho sempre votatato rifondazione prima di diventare apolitico-), anche se si fa giustizia da solo, come dicevo, è un poliziotto ferito, con una gamba segnata dal mitra di Sacchi. E' comunque portatore di un handycap che lo rende impotente. Mentre Sacchi/Milian, anche morendo, preserva la sua arrogante arte criminale.
Un Capolavoro con la C maiuscola....e la C sta per Cinema.

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