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Mayis sikintisi

Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film

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La recensione su Mayis sikintisi

di OGM
8 stelle

Mayis sikintisi, ovvero Nuvole a maggio. Muzzafer vuole girare, con pochissimi mezzi,  un documentario sulla gente della sua terra, e per questo scopo ingaggia i suoi parenti come attori, ed i suoi amici come assistenti. Intanto il suo anziano padre Emin è preoccupato il terreno che ha curato per quasi trent’anni, e sul quale ora incombe la minaccia di esproprio da parte dello stato: gli alberi che lui stesso ha visto crescere rischiano di essere abbattuti nell’ambito di un piano di deforestazione, per fare spazio a coltivazioni agricole. Ceylan realizza questo film col pensiero rivolto, in parte, a Il giardino dei ciliegi di Cechov (a cui l’opera è esplicitamente dedicata) e, in  parte al suo precedente Kasaba, il piccolo racconto familiare di cui ora pare volerci mostrare i retroscena, facendoci assistere alle fasi preparatorie e ad alcune delle riprese. Il personaggio di Emin è, ancora una volta, interpretato dal padre di Ceylan, che, adesso come allora, stando appoggiato ad un tronco,  pronuncia le stesse identiche parole: “Mi trema la bocca. Ho un tic all’occhio sinistro. Ma spero comunque di vivere altri vent’anni.” E le sue memorie di guerra, raccontate in Kasaba, sono ora messe in bocca allo zio Pire, che, davanti alla cinepresa, è invitato a  ricordare come lui ed i suoi commilitoni, girando di casa in casa, in un villaggio iracheno vicino a Mosul, per chiedere un po’ di cibo, si sentissero ripetere da tutti la stessa lapidaria risposta: maho, che nella lingua locale significa “niente”. In questa terza tappa del suo percorso autobiografico, improntato alla ricerca delle proprie radici e alla riscoperta del passato, Ceylan ritrae se stesso e il proprio mondo in una veste semplice, ma tenacemente attaccata alla propria verità: è lui il modesto cineasta Muzzafer, che, in una Turchia investita da un frettoloso processo di modernizzazione,  crede ancora nei valori della tradizione, intesa non come marchio culturale di un popolo, bensì, in chiave universale, come bagaglio di esperienze da tramandare ai posteri. Ritorna, come antitesi rispetto all’indiscriminata spinta al progresso, il simbolo della tartaruga, la quale, con la sua proverbiale lentezza e longevità, rappresenta la continuità della natura, che, senza precipitarsi, riesce comunque ad andare avanti e a resistere al trascorrere del tempo. Le querce, precisa Emin,  impiegano vent’anni per arrivare a produrre le prime ghiande: la maturazione è un processo graduale, che richiede la pazienza di aspettare ed osservare a lungo il mondo, prima di poter iniziare a capire le sue leggi. Queste risultano dalla regolarità di ciò che si ripresenta sempre uguale, nelle diverse circostanze, e segnala così, nel tumultuoso flusso del cambiamento, l’invariabilità dei princìpi: solo chi ha molto vissuto può accorgersi che maggio è un mese infausto, e che, per sapere se verrà la pioggia, bisogna guardare la forma delle nuvole sopra la montagna.

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