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Buongiorno, notte

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su Buongiorno, notte

di LorCio
10 stelle

È un film che mi ha cambiato la vita, per motivi che non sto qui a scrivere.

Da un verso di Emily Dickinson, la notte del titolo è in realtà una mezzanotte. Buongiorno, mezzanotte sembra dire Bellocchio risvegliandosi una bella mattina di marzo nel 1978 con Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse. È la fine di un sogno, infranto dal furore terrorista di uomini che hanno rinunciato alla propria dimensione umana. Che c’entra l’ideologia? È la storia di un’utopia che finisce, il film di Bellocchio. L’uomo dei pugni in tasca sceglie di progettare il film non come una cronaca dei cinquantacinque giorni di rapimento (alla Giuseppe Ferrara, diciamo), bensì entrando proprio nel luogo del rapimento, l’appartamento sotto gli occhi di tutti (le guardie viste nell’occhiello), rielaborando la cronaca in una proiezione creativa.

 

I veri protagonisti sono i brigatisti, con i loro tormenti, le loro vicissitudini, il loro conflitto interiore. In particolare si focalizza l’attenzione su Chiara (personaggio ispirato ad Anna Laura Braghetti), la carceriera che più di tutti passa il proprio tempo col prigioniero. Quando i compagni decidono di giustiziarlo in nome del potere proletario, lei, timidamente, s’oppone. Questa solitaria figura femminile (una straordinaria Maya Sansa) è il memorabile fulcro del film, lo smarrimento della militante la cui storia “viene da lontano”, che ripensa ai martiri dello stalinismo e ai partigiani condannati a morte. «Ogni uomo deve morire, ma non tutte le morti hanno lo stesso significato», dice il capo della cellula (un asciutto Luigi Lo Cascio che dovrebbe rievocare la figura di Mario Moretti), ed infatti la morte di Moro segna una tappa fondamentale della nostra storia patria: qual è il senso della morte di Moro?

 

Chiara, che è l’unica ad avere rapporti col mondo (lavora in biblioteca) capisce che la gente non capirebbe, che Moro sarebbe diventato un martire, che le eventuali responsabilità dell’uomo politico sarebbero state condonate di fronte alla barbarie subita dall’uomo. L’affascinante lettura di Bellocchio risulta molto intimista perché fotografa con occhio attento e vigile le angosce di una donna sulla linea d’ombra tra ideologia e ragione. Emblematica resta la scena della tavolata domenicale coi parenti ex partigiani che intonano Fischia il vento, in cui lo straniamento è plurimo: Chiara estranea ad una famiglia tutto sommato riformista e rivolta al passato monumentalizzato; la tavolata estranea all’irrequietezza del Paese raccontato dalle cronache; Chiara estranea alla cellula perché in fondo rassicurata dalla tavolata e allo stesso tempo estranea alla tavolata perché idealmente convinta dell’adesione alla lotta (e tutto torna).

 

Il simbolismo, che regna sovrano nella filmografia bellocchiana, trova spazio nella claustrofobia della messinscena: l’uccellino in gabbia sembra un’operazione un po’ cinica e forse fin troppo manifesta; il bambino che viene affidato a Chiara la mattina del sequestro, che sta ad indicare il dualismo tra vita reale e vita reclusa della donna; il Papa (finemente disegnato da Giulio Bosetti), che getta tutti i fogli dal tavolo di lavoro. Se ne potrebbero citare a iosa: l’importante è sottolineare la volontà di stilizzazione che si propone come un elemento strutturale nell’operazione creativa forse allegorica. Il finale su due piani (le immagini di repertorio del funerale con i Pink Floyd e la fuga immaginata del prigioniero sulle note di Schubert) è una delle cose più belle del cinema italiano degli ultimi trent’anni. Aldo Moro è un indimenticabile Roberto Herlitzka.

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