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L'arpa birmana

Regia di Kon Ichikawa vedi scheda film

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La recensione su L'arpa birmana

di spopola
8 stelle

Mediata da un racconto di Michio Takeyama, è una storia avvincente e poetica sospesa fra realtà ed estasi religiosa, ambientata in Birmania alla fine della seconda guerra mondiale. Un film che esalta l’innato pacifismo dell'uomo qui espresso alla massima potenza.

Finalmente è disponibile anche in dvd una delle più importanti, suggestive e appassionate pellicole antimilitariste di tutti i tempi. Mi riferisco a “L’Arpa Birmana” di Kon Ichikawa (la prima versione del 1956, non la seconda del 1985 che non conosco, ma che immagino non paragonabile alla straordinaria, memorabile, commovente grandiosità dell’originale) “mancato” Leone d’oro alla mostra del cinema di Venezia di quell’anno che “sospese” il palmares limitandosi ad assegnare solo alcuni riconoscimenti secondari, con un laconico – inaccettabile – verdetto di “impremiabilità” perchè “nessuno dei films presentati in concorso era stato ritenuto ‘degno’ e meritevole del Leone (sic!!!). Ichikawa dovette infatti “accontentarsi” del Gran premio San Giorgio perché i giurati di quell’edizione, sembra per un disaccordo profondo e indispettito - che trovò proprio in Visconti il più acceso “nemico” del film - e per i veti incrociati che ne conseguirono che non consentirono in alcun modo nemmeno la stesura nemmeno di un verdetto di “compromesso compatibile” che potesse incoronare col massimo riconoscimento previsto per lo meno un’opera fra ciò che di positivo era stato presentato in quella rassegna (e non era poco!!!) che il tempo ha confermato assolutamente non inferiore né più disprezzabile delle altre del periodo e che oggi risulterebbe addirittura “succulenta” e “sontuosamente prelibata”. Il film comunque si prese da subito una “rivincita” sulla stupidità dei giurati, incontrando l’immediato consenso del pubblico (non in termini di incassi esorbitanti, ma di “innamorato” apprezzamento) e della critica con un riconoscimento uniforme e trasversale, che è enormemente cresciuto con il passare del tempo, fino a farlo diventare un piccolo e “classico” cult potente e inimitabile. Il ritmo è largo e maestoso, quasi solenne nel suo procedere “lento” e “silenzioso” (se si esclude l’affascinante, indispensabile supporto musicale del “commento” affidato agli accordi dell’arpa che ben si coniuga con la splendida fotografia “morbida” e luminosa di Minoru Yokohama). Mediata da un racconto di Michio Takeyama, quella narrata è una storia avvincente e poetica sospesa fra realtà ed estasi religiosa, ambientata in Birmania alla fine della seconda guerra mondiale, che racconta le peripezie (meglio sarebbe dire il “percorso esistenziale”) di un soldato giapponese che, dopo aver assistito alla decimazione completa del proprio reparto, sterminato per non essersi voluto arrendersi al nemico e del quale lui rimane l’unico sopravvissuto, decide di farsi bonzo per dedicarsi al culto dei morti, e vaga per questo, muto e “solitario” (accompagnato soltanto da pappagallo e da un’arpa) alla ricerca di cadaveri da seppellire e “onorare”, senza alcuna distinzione fra amici e nemici, in uno spirito di pietosa, ritrovata “fratellanza”. Il regista, attraverso la “muta” presenza testimoniale del bonzo, prende così “posizione” e distanza dall’orrore e dalle carneficine della guerra (di ogni guerra, battaglia o conflitto) riportando alla luce (ed esaltandolo) l’innato (ma spesso disconosciuto) pacifismo che dovrebbe rappresentare uno dei sentimenti prioritari di ogni cervello pensante, perchè affonda le sue radici proprio nella coscienza religiosa (e non solo) dell’uomo e che non dovrebbe mai per questo essere rinnegato o reso latente. Un “poema” mistico che forse ha qualche piccolo ma perdonabile “cedimento” verso la ridondanza verbosa (almeno per noi occidentali) ma così fortemente radicato nella coltura giapponese, da diventarne parte integrante e inscindibile, a suo modo un “silenzioso” grido di rivolta veemente e pacato allo stesso tempo. Come già accennato, la musica è “mediatrice” eccellente e indispensabile, che contribuisce ad “esaltare” il percorso creativo dell’autore e ad “addolcire” il peso ossessivo della morte che impregna tutto il tessuto narrativo, come meglio non sarebbe stato possibile fare, sullo sfondo di una natura rigogliosa ma al tempo stesso “ferita” e sanguinante. Ieraticamente composta e “aderente” la resa degli interpreti (soprattutto il protagonista, che trasfonde nell’attonicità dolorosa del suo sguardo, rendendola palpabilmente percettibile, tutta la tragica disumanità della belligeranza armata. Posso concludere ( come meglio non sarebbe possibile fare) con una citazione dalla critica di Tino Ranieri pubblicata subito dopo l’uscita del film che ben definisce il “valore” e la sostanza creativa di questa insolita “condanna” molto più forte di una declamatoria denuncia urlata: “Del ribrezzo per la violenza e per la ferocia, del distacco doloroso e ‘necessario’ tra il suonatore d’arpa e i commilitoni, il film di Ichikawa comprende e dice magistralmente, e per intero, l’importanza (….) Di rado si è veduta al cinema un’opera in cui orrore e grazia si accostino fra loro con tanta sensibilità come in questo film”. Inutile dire allora che ne consiglio caldamente la visione a tutti i “veri” amanti del buon cinema.

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