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L'armata a cavallo

Regia di Miklós Jancsó vedi scheda film

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La recensione su L'armata a cavallo

di Antisistema
10 stelle

Il successo internazionale dei Disperati di Sandor (1966), unito alla falsa dichiarazione fatta da Miklos Jancsò relativamente all'insussistenza di parallelismi tra i contenuti del film e la soppressione della rivolta di Budapest del 1956 da parte dei sovietici, ha fatto si che la nascente avanguardia cinematografica ungherese venisse all'attenzione delle sfere politiche comuniste, che volevano immettere tale sperimentazione al servizio della propaganda, affidando così un lavoro al cineasta, che secondo le loro intenzioni avrebbe dovuto sia celebrare la rivoluzione bolscevica, di cui ricorreva il cinquantennio, sia cooptare all'interno del sistema cinematografico sovietico un regista emergente di talento, ma da grande artista, l'ungherese Jancsò prese i soldi e al tempo stesso fece beatamente i cazzi suoi, ottenendo con l'Armata a Cavallo (1967), un successo internazionale ancora più fragoroso, con tanto di uscita al cinema in Italia, prima volta per una sua pellicola (Sandor uscirà successivamente).
Libero dagli asfissianti quanto opprimenti canoni del realismo socialista, Jancsò con il suo stile astratto-simbolico, mette in scena un altro pezzo di storia del suo paese, tramite l'appoggio da parte di molti ungheresi verso i bolscevichi nella guerra civile in Russia contro l'armata bianca, composta da sostenitori del defunto zar e forze reazionarie, appoggiate nella loro contro-rivoluzione dalle forze occidentali, che non vedevano di buon occhio un governo comunista, ma non avevano la forza di intervenire direttamente nel conflitto a causa dello sfinimento post-prima guerra mondiale. Non ci sono protagonisti, abbiamo volti anonimi di gente comune che entrano in scena dal fuori campo, per poi andarsene nei modi più disparati, spesso con morti sommarie o addirittura avvenute per circostanze fortuite del caso, che con più attenzione da parte di costoro, avrebbe potuto essere evitata, il che spoglia dell'atto estremo di ogni vestigia di eroismo per la causa ideologica (molte morti poi avvengono o in massa o in campo lungo, proprio per sfuggire a qualsiasi identificazione empatica che potrebbe far patteggiare per una parte), qui si presente come scontro tra le due fazioni, ma il distacco algido di Jancsò tramite la macchina da presa, spoglia di ogni sovrastruttura politica i singoli personaggi, per vestirli sono degli istinti di sopravvivenza e volontà di sfuggire alle violenze di una parte e dell'altra del conflitto. 


Più soldi, più possibilità espressive, i longtake ed il montaggio ancora presente nell'opera precedente, lasciano qui spazio alla tecnica del piano sequenza usata e sfruttata in modo estensivo, cominciando dagli iniziali cinque minuti dove due soldati dell'armata rossa cercano di sfuggire ad un inseguimento da parte dei bianchi, ma macchina da presa gestisce uno spazio vasto a perdita d'occhio, di cui solo un ruscello rompe la monotonia spaziale, ma esso non è fonte di alcuna vita (infatti è lì che viene ucciso uno dei due fuggitivi), ma accentua solo la desolazione ambientale della puszta, quelle pianure tipiche dell'est Europa, che si perdono a vista d'occhio, dove neanche la vastissima profondità di campo adoperata dal cineasta riesce a scorgere una fine. 
Il paesaggio sempre uguale a sè stesso, nonostante la vastità, risulta invece chiuso in sè stesso, l'orizzonte in cui si muovo in lungo ed in largo i personaggi viene precluso dall'impossibilità di trovare una via di fuga da esso; se il deserto americano è si ostile, ma al di là di esso c'è un eden in cui andare, la puszta è un inferno brullo ed anonimo senza fine, all'interno di essa si muove un caos di esseri umani in lotta tra loro, senza focus nè personaggi principali, solo un enorme confusione che poi secondo il regista dovrebbe coincidere con l'idea stessa della guerra, che ha si dei vincitori, ma senza superiorità morale di una parte verso l'altra (tranne la seconda guerra mondiale probabilmente), perchè l'opera parte con le violenze inflitte dalla parte dei bianchi, per poi presentare in luce per niente celebrativa l'armata bolscevica, che equivale la controparte in fatto di crudeltà; solo le donne non sono così oggettivate sfuggendo in parte alla follia del conflitto tramite le crocerossine che curano i soldati di entrambe le parti, pagando ciò con il divenire strumenti di possesso per le due armate in lotta. 
Secondo Jancsò la guerra non è altro che il secondo tempo della pace, una rottura degli equilibri che autorizza ancor più esplicitamente, chi detiene il potere ad usarlo per annichilire chi si ritrova al di sotto, infliggendo dapprima torture psicologiche, dando ai prigionieri una futile speranza di salvezza, per poi privare costoro improvvisamente di essa e passare alla tortura fisica ed infine infliggere la morte. Nell'Unione Sovietica una simile opera non potè che suscitare ostilità, dopo un veloce passaggio nei cinema giusto per recuperare i costi, venne proibita nel paese fino alla fine del comunismo, mentre in patria ottenne un buon successo, nonostante l'indubbia difficoltà richiesta da un film, che gioca di simbolismi e distacco, rompendo ogni canone narrativo classico. 

 

Film aggiunto alla playlist dei capolavori : //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297

 

 

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