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Il nemico alle porte

Regia di Jean-Jacques Annaud vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il nemico alle porte

di SredniVashtar
7 stelle

Se il film si fosse chiamato Stalingrado, potrei trovarmi d’accordo con le critiche che lo accusano di “non far vedere la guerra”, puntando invece lo zoom sulle faccende personali dell’eroe Zaitzev (Jude Law), che sono ben tre: il rapporto con il suo specchio (Ed Harris, qui il maggiore Konig, il cecchino tedesco), quello ambiguo con il commissario politico (Joseph Fiennes/Danilov, da confondersi a piacere col fratello Ralph), quello romantico con la bella e impegnata (ideologicamente) compagna cittadina (Rachel Weisz/Tania). Ma il film si chiama diversamente, e il nemico alle porte forse ha più di una faccia, non necessariamente solo quella storica della VI Armata di Von Paulus.

 

Mi pare un pregio che Vasili Zaitzev non venga tratteggiato come un eroe tutto d’un pezzo, bensì come un eroe per caso, strapieno di dubbi su sé stesso (anche troppi) e apparentemente inconsapevole di ciò che muove attorno a sé – e mi riferisco soprattutto ai sentimenti. Il britannicissimo Law ha la faccia giusta: come russo, meglio di lui sarebbe risultato solo Daniel Craig (per puro caso citazionistico, il vero partner nella vita della Weisz). Law si muove silenzioso e non troppo convinto tra macerie e sparatorie, senza neanche la certezza di essere il migliore col fucile. Gradevole.

 

Il vero protagonista è Ed Harris, il cui ruolo determina il registro del film: se gli avessero chiesto di scriversi addosso la parte, non avrebbe potuto fare di meglio di come è venuta; Harris è semplicemente perfetto, dalla prima all’ultima inquadratura. L’attore americano ha un uso delle mani particolare (come – in diverso modo - Jeff Goldblum): guardate come estrae le sigarette e impila le tavolette di cioccolato, e vedrete uno che recita anche con gli arti, ad un ritmo rallentato che gli è congeniale.

 

Anche Fiennes ha la faccia giusta per il ruolo ambiguo e furbastro che gli viene affidato. Il suo sacrificio finale non ce lo rende più simpatico, ma solo finalmente umano, anche inutilmente (non c’era bisogno di farsi sparare apposta, ma forse è un’auto-punizione per aver fallito su più fronti).

 

Volontariamente o no, il film fa anche intravvedere alcuni aspetti storici curiosi (e reali): fuori dal campo di battaglia sono possibili insospettabili mutamenti di contesto e atmosfera, come qui la festa in onore di Zaitzev al quartier generale russo (dall’altra parte del Volga, quella “tranquilla”). Forse non tutti sanno che nel novembre ’42, quando la VI Armata tedesca era già stata circondata dai russi, Von Paulus prese un aereo e volò in Germania, per un colloquio personale con Hitler, per tornare dopo 24 ore nell’inferno dell’assedio. Qui in alcune scene si sperimenta il medesimo spiazzamento, sia pure sul fronte dei russi.

 

Non ho capito bene la parte di Ron Perlman, uno dei miei caratteristi preferiti, che rapidamente scompare così come era apparso: io lo avrei usato di più, se non altro per monitorare meglio il suo peculiare rapporto con i truccatori; non credo di averlo mai visto senza qualche deformazione, mutilazione o cicatrice a uso scenico: qui per esempio gli hanno strappato tutti i denti. Forse impersona la voce ufficiale del non-allineamento all’etica staliniana, tanto per dare un colpo anche alla botte.

 

La Weisz è gradevole, e la scena in cui si mette a culo all’aria per consolare lo stanco Zaitzev vale il prezzo del biglietto. Purtroppo, si rende incolpevolmente responsabile di una specie di spin-off del film, in puro stile Libro Cuore: l’ultima mezz’ora della fatica di Annaud era da bruciare in fase di montaggio, senza se e senza ma.

 

Bob Hoskins tenta di somigliare a Kruscev, nel cipiglio e nell’arguzia. Purtroppo non risulta sufficientemente credibile: la sua ombra ha sempre le orecchie di Roger Rabbit.

 

Il film è giustamente rumoroso, tra bombardamenti e sparatorie, ben supportato dagli effetti speciali. La scena dell’arrivo sul campo da parte di Zaitzev e i cinque minuti che seguono stimolano le ghiandole surrenali dello spettatore. Forse è per quest’incipit che c’è chi si lamenta che l’impostazione “guerresca” venga poi tradita. Ma – ripeto – il film vuole parlare d’altro, e a mio avviso ci riesce.

Qualcuno non l’ha ancora visto? Lo faccia, senza problemi. Se poi, una volta morto Konig/Harris, vuole alzarsi per dedicarsi ad altro, sappia che non si perde nulla.

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