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Primadonna

Regia di Marta Savina vedi scheda film

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La recensione su Primadonna

di pazuzu
8 stelle

Innamorata di questa eroina nazionale, Savina si dà come obiettivo quello di farla amare da chi, assistendo al suo racconto, viene a conoscenza della guerra che ha dovuto combattere, contro tutto e tutti, per non passare da 'svergognata' in seguito ad uno stupro subito.


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Fino al 1981, il codice penale italiano ha contenuto un articolo che contemplava la possibilità per lo stupratore di vedersi estinguere il reato sposando la donna sulla quale aveva usato violenza: era il cosiddetto matrimonio riparatore, ereditato dal codice Rocco di epoca fascista, che, secondo una visione machista e misogina dei rapporti umani, riconosceva all'uomo criminale il merito di restituire l'onore alla donna che lo aveva perso. Sedici anni prima, nel 1965, fu una ragazza siciliana la prima ad osare ribellarsi a questa prassi barbara, a pronunciare il fatidico "No" e rifiutarsi di apporre la firma che avrebbe permesso al suo stupratore di farla sua con il benestare della legge.

 

 

La giovane regista Marta Savina riprende il tema del suo corto d'esordio (Viola, Franca del 2017) per estenderlo in un lungometraggio, Primadonna, confermando la stessa attrice protagonista (un'intensa Claudia Gusmano) ma modificando, rispetto ai dati storici, i nomi di persona e i luoghi: la reale Franca Viola diventa Lia Crimi, il vero aguzzino Filippo Melodia si trasforma in Lorenzo Musicò, mentre la città di Alcamo, dove il fatto accadde, è sostituita da Galati Mamertino.
Ma a prescindere dai dati sensibili (la regista motiva la scelta con la necessità di fare della protagonista un personaggio universale), quel che conta è la storia, che è quella potentissima di una giovane con un coraggio da leone che sfida la legge italiana e la malavita locale per salvare la propria dignità e per poter conservare il proprio libero arbitrio, è il clima sociale, che è quello di una Sicilia rurale nella quale la mafia può tutto e anche solo ipotizzare una denuncia comporta uno stigma per una stirpe intera, con le forze dell'ordine che si girano dall'altra parte e la chiesa che china il capo diventando connivente, è il contesto culturale, che è quello di un sistema patriarcale radicato e moralista nel quale sono le madri stesse ad insegnare alle figlie che non va fatto quel che si vuole ma quel che è ben visto dagli 'altri'.

 

 

Innamorata di questa eroina nazionale, Savina si dà come obiettivo quello di farla amare da chi, assistendo al suo racconto, viene a conoscenza della guerra che ha dovuto combattere, contro tutto e tutti, per non passare da 'svergognata' in seguito ad uno stupro subito, e di quella parallela intrapresa dentro sé stessa per riuscire ad urlare in faccia al mondo che l'onore non lo perde colei che subisce un abuso, ma colui che lo commette.
Nonostante il pathos del racconto (merito anche di una ricca colonna sonora, che allo score ansiogeno di Yakamoto Kotzuga accosta perle come Dawn Chorus di Thom Yorke), la regista gestisce al meglio il rapporto tra i due protagonisti, governando in maniera fluida il passaggio dalla fase iniziale del corteggiamento a quello del rifiuto (determinante in questo è la scena del fermaglio), senza creare caricature e senza apparire retorica né manichea, lasciando piuttosto intendere quanto importanti siano, nel percorso di ciascuno, le famiglie di provenienza (e la sua ha il seme della rivolta dentro): un rifiuto, il suo, che oggi può sembrare fisiologico, ma allora fu una scelta rivoluzionaria e un passo basilare in direzione della lotta per l'emancipazione femminile.

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