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Il colibrì

Regia di Francesca Archibugi vedi scheda film

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La recensione su Il colibrì

di pazuzu
5 stelle

La voglia di stupire prende via via la mano, e se da un lato è perdonabile che qualche personaggio o scena risultino meno riusciti e credibili, lo è meno constatare che l'architettura complessa scelta serva in buona parte da diversivo per rendere digeribili una serie di disgrazie volte a generare lacrime facili.

 

 

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Dalla gente che gli ruota attorno, Marco Carrera è definito un colibrì, perché, come questo uccello, usa tutta la forza che ha per volare controcorrente e mantenersi fermo. Del colibrì, peraltro, ha avuto anche le dimensioni minute, per via di un problema che a quattordici anni lo portava a dimostrarne dieci, tanto da convincere il padre a sottoporlo ad una cura ormonale che gli permettesse di crescere il giusto. Il film di Francesca Archibugi, così come il libro di Sandro Veronesi da cui è tratto - Premio Strega 2020 - segue Il Colibrì Marco in tutto il suo percorso esistenziale: le sue due ore abbondanti partono dagli anni '70 per giungere fino ad un futuribile 2030, e lo fanno accettando la sfida proposta dallo scrittore, ovvero non procedendo in ordine cronologico ma distillando gli eventi e i momenti chiave in ordine sparso, quasi fosse il flusso dei ricordi di un uomo giunto al termine della propria corsa.

 

 

Nella sua propensione ad una laboriosa immobilità, Marco ha trovato la propria strategia per sopravvivere alla miriade di perdite che funestano la sua vita, è uno che l'amore vero, incontrato ma non consumato all'età dei primi turbamenti, ha preferito conservarlo come corrispondenza platonica e segreta anche in età matura, affinché quel fuoco restasse vivo o almeno faticasse a spegnersi, trovando successivamente la donna da sposare in un incontro che lui stesso aveva scelto e interpretato come voluto dal destino: per tenersi una speranza, per continuare a sognare, ad esistere.

 

 

La perenne ricerca di stabilità, ma anche a suo modo la coerenza di un uomo comune ma capace di una sensibilità singolare che lo allontana dalla massa, sono resi in maniera senz'altro esaustiva dalla penna dell'autore Veronesi prima e da quelle degli sceneggiatori Laura Paolucci e Francesco Piccolo poi, così come appare funzionale la scelta di non affidare a didascalie o ad artifizi cromatici i passaggi tra epoche diverse, dando fiducia alle capacità degli attori e al lavoro di montaggio di Esmeralda Calabria. Peccato, però, che la voglia di stupire prenda via via la mano, e se da un lato è perdonabile che qualche personaggio o scena risultino meno riusciti e credibili (Duccio detto 'l'Innominabile', ad esempio, e in particolare la sequenza che lo riguarda nel prefinale, quando da adulto lavora come 'porta sfiga a pagamento'), lo è meno constatare che l'architettura complessa scelta serva in buona parte da diversivo per rendere digeribili una serie di disgrazie volte a generare lacrime facili.

 

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