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Il trittico di Antonello

Regia di Francesco Crescimone vedi scheda film

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La recensione su Il trittico di Antonello

di spopola
6 stelle

L’interessante esordio sul grande schermo di Francesco Crescimone, è avvenuto nell’ormai lontanissimo 1992 con questa singolare (e sfortunata) opera indiscutibilmente meritevole (nonostante le incertezze tipiche di ogni debutto) di maggiore attenzione, non solo da parte del pubblico ma anche della critica (del film credo non se ne trovi traccia nemmeno nei dizionari di cinema che vanno per la maggiore come il Mereghetti e il Morandini, e questo a mio avviso è un segnale abbastanza eclatante di “censura delle idee” proprio in relazione all’emarginazione programmatica che subiscono molte pellicole rifiutate dal mercato al momento della loro uscita, e per questo passate direttamente nel dimenticatoio più assoluto – anche della memoria - quasi a volerne “cancellare” completamente le scomode tracce).

Purtroppo, nonostante le indubbie qualità ancora un po’ grezze, ma evidentissime che si riscontravano chiaramente nell’opera, a Crescimone non sono poi state offerte altre successive occasioni per darci conferma del suo talento (il suo nome lo ritroviamo - a distanza di moltissimi anni - nel cast di Uno su due di Eugenio Cappuccio, ma solo come attore) e credo che sia stato un vero peccato, poiché la sua idea di cinema sembrava davvero intrigante, oltre che decisamente insolita soprattutto per la nostra cinematografia sempre più decotta (ma come si sa, di fronte a un insuccesso clamoroso di cassetta come quello al quale è andato incontro il film, difficilmente in Italia si concedono prove d’appello).

E’ la Sicilia ad essere protagonista e a fare da sfondo ai tre episodi  nei quali è articolato il film (un “trittico”, appunto, come è suggerito dal titolo, ma che ha una continuazione evidente nei passaggi dei personaggi “in divenire”dall’una all’altra storia).

Il primo dei tre, intitolato Febbre, è ambientato in un’isola (la Sicilia appunto), praticamente “in stato d’assedio”. L’anno dei fatti, è il 1894 ed è un dramma a fosche tinte quello che viene rappresentato, la storia di una maternità non conforme, quella di Vera che, innamorata di Saverio, aspetta un bimbo da un altro uomo. Cercherà inutilmente di convincere il padre che è in realtà Saverio colui che l’ha messa incinta, sperando così di riuscire per lo meno a coronare il suo sogno d’amore, ma niente andrà per il giusto verso e la legge dell’onore avrà il sopravvento, spostando tutto verso una conclusione inevitabilmente tragica. Dalla gravidanza, nascerà comunque una bambina alla quale verrà imposto il nome di Saveria.

Analogamente tragico l’epilogo della seconda storia che racconta la Sicilia del 1946. Questa volta la protagonista è Saveria (l’episodio si intitola Furore) e un gruppo di separatisti che tiene in ostaggio otto carabinieri che si rifugia nel casale di Rafforosso dove la donna vive. Le conseguenze (soprattutto per gli ostaggi) saranno ovviamente drammatiche.

Praticamente contemporanea a quella dell’uscita del film invece, la datazione del terzo episodio (Fiele) che narra la storia dell’anoressica Martina e delle allucinazioni che la perseguitano. E proprio in occasione dell’inaugurazione  di una mostra dedicata al padre antropologo,  si troverà ad assistere alla proiezione di un filmato che è in pratica la replica esatta delle visioni dei suoi terribili incubi…

Esposti così, nella nuda veste delle parole che ne tracciano i percorsi, si può immaginare un andamento persino omologato, ma il risultato pratico, grazie soprattutto alla potenza delle immagini (la fotografia, è anch’essa opera di Crescentini, così come la sceneggiatura) è fortunatamente di differente impatto, poiché il respiro stilistico del regista (rigoroso, essenziale, asciutto) è tale, da far diventare palpitante la materia proprio attraverso  le modalità con cui il suo sguardo (la macchina da presa)  riesce ad insinuarsi con estrema pudicizia, proprio nelle aree “critiche” entro le quali la Storia (quella con la S maiuscola, naturalmente) si incontra (ed entra in frizione) con le ragioni della quotidianità. Per quanto la tensione ceda ogni tanto a qualche effetto declamatorio di troppo, è infatti proprio lo scontrarsi sotterraneo tra questi due poli apparentemente contrapposti a determinare (e tenere viva), la qualità dell’emozione dello spettatore e a farla diventare appassionante, nonostante questi piccoli eccessi di retorica .

Ci sono degli squilibri che non rendono del tutto omogeneo il lavoro, qualche smagliatura inevitabile, ma sono per fortuna difetti compensati in larghissima misura (e anche nobilitati)  proprio dalla forza con cui Crescimone è capace di avvincere appassionando, e dalla convinzione caparbia (anche dolorosa) con la quale riesce a  trasmettere l’amorosa rabbia che lo lega alla sua terra  “in questo serrato corpo a corpo con le immagini” che ritraggono una Sicilia “barbara” ed ancestrale prigioniera dei sui  codici e delle sue tradizioni, “il cui respiro palpitante vive irrequieto nei raccordi fra le inquadrature e nei volti scavati dalla fatica degli interpreti” (Giona A. Nazzaro) che sono, fra i tanti, Lorenza Indovina (forse la migliore in campo), una sofferta, empatica Lydia  Alfonsi, Lorena Benatti, Pino Ammendola, Ninni Bruschetta, Adriana Alben,  Siddarta  Brucchieri, Luigi Amodeo e Biagio Barone. 

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