Regia di Yasujiro Ozu vedi scheda film
«Trascorrono intere giornate senza che accada nulla» esclama Noriko nel finale del film in preda alla commozione. Solo lasciandosi cadere in questo vuoto, in questo scollamento dal ritmo che impone la modernità, in questa noia come sentimento del non-essere, è possibile darsi all’altro, consegnare le proprie parole all’altro perché possa enunciarle, soprattutto se questo altro è la smarrita coppia di suoceri Hirayama che decide di fare un viaggio a Tokyo per ritrovare i propri figli dispersi. Il tempo è il binario su cui corre il film, un film lungo (più di due ore) che si snoda da una parte sul tempo dilatato -ma dal fiato corto- della coppia, e dall’altra sul tempo di Tokyo, la grande metropoli di cui non si afferra la dimensione, in cui si è sulla soglia (il figlio medico –Koichi- vive in una periferia che già non è più Tokyo). Le sequenze domestiche –tanto care a Ozu- si susseguono nella loro inarrestabile lentezza separate da fugaci cartoline di ciminiere, tralicci, rotaie che fendono l’inquadratura tagliandola in due, cartoline queste usate come dissolvenza e allo stesso tempo come attesa, allo stesso modo delle immagini agresti utilizzate dalla RAI di molti anni fa per segnare il tempo imminente della trasmissione seguente. È un tempo di attesa di qualcosa che non accade, tanto che la morte di Tomi –la madre- è un non accadimento, la stessa venuta di papà e mamma –pure evento eccezionale- è un non accadimento, tanto è colto con fastidio dai figli affaccendati dalle proprie occupazioni. Tutta l’esistenza sembra essere costruita per proteggersi dalle parole di Shukishi e Tomi, temute pure nella loro nipponica discrezione, o forse si tratta di proteggersi dalle proprie, ora che papà e mamma sono troppo vecchi e deboli per ascoltarle, facendo così della loro fragile disponibilità all’ascolto una occasione. Solo Noriko –la moglie del figlio morto in guerra- mostra il disagio di sé stessa, reso evidente anzitutto dal fatto di essere li ad accoglierli, senza avere niente di meglio da fare. «Non è il tempo a mancarci, siamo noi che manchiamo al tempo» chiosa Enrico Ghezzi nel suo volume “Paura e desiderio”, e in questo mancare sta la nostra più profonda –benchè dolorosa- essenza, fino al mancamento estremo, quello su cui Ozu fa avvitare vorticosamente questo film, il gorgo della morte che manca anch’essa come avvenimento, come evento, tanto da arrivare in ritardo (Kyoko), tanto dal cercare di fare finta di non accorgersene (Haruko e Koichi, i figli rispettivamente medico e parrucchiera). Solo Noriko cerca l’evento per farlo parlare, e dire cose che già sa. Le sequenze domestiche sono mirabili per la potenza dell’angolo di visione dell’obiettivo, sempre ad altezza tatami (50 cm. da terra), con la musica che rinuncia al commento se non per rilanciare una nuova sequenza, con l’inquadratura fissa che si appoggia alle linee di composizione degli ambienti domestici, e in cui i protagonisti scivolano silenziosi –soprattutto le donne- come in una chiesa. Trascorrono intere giornate senza che accada nulla, anche questo film è un non accadimento. Siamo noi che manchiamo al tempo, come Enrico Ghezzi ci ricorda mandando in onda per ‘Fuori Orario’ l’opera omnia del maestro giapponese. Fuori orario, fuori dal tempo: anche la notte trascorre senza che accada nulla…
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