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Kadosh

Regia di Amos Gitai vedi scheda film

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La recensione su Kadosh

di FilmTv Rivista
8 stelle

Presentato al Festival di Cannes del 1999, “Kadosh” (“sacro”) è l’ultimo atto di una riflessione in tre parti sulla vita nelle grandi città d’Israele, condotta dal regista Amos Gitai. Dopo le ricognizioni nelle comunità di Tel Aviv (“Devarim”) e Haifa (“Yom Yom”), Gitai s’inoltra nel cuore stesso del paese e dell’ebraismo, attraverso le mura e le consuetudini millenarie della comunità ebrea ortodossa di Mea Shearim a Gerusalemme. È un mondo a parte quello che ci mostra, e la prima impressione per lo spettatore occidentale è di un inaccettabile anacronismo. Le grandi religioni monoteistiche hanno di fatto messo la posizione femminile in un ruolo di “feconda” e indiscutibile subalternità, ma quello che accade a Mea Shearim sembra appartenere ad un lontano passato. «Benedetto Signore per non avermi fatto nascere donna». È una delle prime litanie recitate da Meir, trentenne studioso della Torah; l’uomo è sposato da dieci anni con Rivka, ma la coppia non ha figli anche se la donna non è sterile: questo è un problema per la comunità e il rabbino cerca di costringere Meir a ripudiare la compagna. Melka, la sorella di Rivka, è invece costretta a sposare il gretto Yossef, compagno di studi di Meir, mentre lei è innamorata di un giovane musicista laico. Le donne sono le vere protagoniste del film, vivendo in prima persona le contraddizioni della comunità che sacrifica al rituale e ai comandamenti ogni aspetto del quotidiano, anche il sesso, consumato in un modo infantile e insostenibile. Gitai, che per molti anni ha vissuto lontano da Israele per le sue idee sulla questione palestinese, ci offre un documento lucido e sofferto sul rapporto tra individuo e comunità. «C’è un mondo qui fuori» recita una delle donne, ma secondo Gitai non è il migliore dei mondi possibili e al tempo stesso non può ignorare che quelle leggi arcaiche hanno permesso al popolo d’Israele di superare la diaspora e le persecuzioni; una contraddizione apparentemente irriducibile, se non attraverso una nuova e meticcia concezione del “sacro”.

 

Recensione pubblicata su FilmTV numero 18 del 2000

Autore: Fabrizio Liberti

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