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Mank

Regia di David Fincher vedi scheda film

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La recensione su Mank

di AlbertoBellini
8 stelle
Il C’era una volta a Hollywood di David Fincher.
Non una lettera d’amore, ma un’amara presa di coscienza di un sistema distorto, passato, ma assolutamente contemporaneo: una fabbrica che di sognante, dietro le quinte, ha ben poco.
Più che al cinema, un monumento allo sceneggiatore (ruolo spesso occultato dall’ombra di un regista qui per buona parte fuori campo o fuori fuoco) e al padre, cinematografico e biologico, che sono in verità lo stesso soggetto (è del compianto Jack Fincher la sceneggiatura del film). Pertanto Quarto Potere e la storia della sua realizzazione restano solo un pretesto per narrare, invece, dell’uomo alle prese con tutta una serie di realtà che vanno a comporre la sua esistenza negli Stati Uniti degli anni ‘30 (ma non solo), come i meccanismi eticamente discutibili del complesso hollywoodiano, il vizio (o meglio, i vizi) dell’alcol, la lotta politica fra repubblicani e democratici, l’autorità e il potere cancerogeno dei media (topos del cinema di Fincher), nel mentre “in sottofondo” si erige un rapporto ambiguo, malinconico, mai esplicito ma fondato su una tenerezza reciproca, con la Marion Davies di Amanda Seyfried: la Rosebud di Mank.
La vita di Herman J. Mankiewicz, il suo incontro (e confronto) con William Randolph Hearst, per il quale nasce un’ossessiva attrazione, diviene proprio la chiave per svelare l’arcano, dando origine, e da cui ha origine, il capolavoro di Orson Welles: Mank deve la sua esistenza a Quarto Potere (anche solo per la struttura narrativa composta da continui salti temporali), eppure Quarto Potere non esisterebbe senza Mank – questo al di là di tutte quelle discussioni sull’effettiva paternità (!) dell’opera che lasciano il tempo che trovano: è cinema, fiction, scrittura, una (re)visione della realtà (anche in questo sta l’accostamento iniziale a Tarantino), e determinate logiche rimarranno un mistero. Ritengo quindi che pretendere un ritratto pedissequo delle personalità inscenate sia oltremodo sbagliato, lontano anni luce dagli stessi intenti del film, a favore esclusivamente dell’artista e della sua libertà. Dopotutto, “non si può ritrarre l’intera vita di un uomo in due ore, ma solo provare a darne un’impressione”.
Forse non ha in sé la potenza narrativa e il cinismo di The Social Network, film al quale è inevitabilmente legato (per quel che mi riguarda, il capolavoro insuperato di David Fincher e, a tutti gli effetti, il suo Quarto Potere), ma Mank resta una delle (poche) opere più interessanti e stratificate viste in quest’annata da dimenticare.
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