Espandi menu
cerca
Il profumo della signora in nero

Regia di Francesco Barilli vedi scheda film

Recensioni

L'autore

spopola

spopola

Iscritto dal 20 settembre 2004 Vai al suo profilo
  • Seguaci 507
  • Post 97
  • Recensioni 1197
  • Playlist 179
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su Il profumo della signora in nero

di spopola
8 stelle

La storia di una nevrosi coniugata al femminile dai molti echi Polanskiani. che nasconde vecchi traumi infantili ormai dimenticati che riserverà un sorprendentemente, grandguignolesco ribaltamento di prospettiva finale, capace di dare differente senso e dimensione interpretativa a tutti i precedenti eventi narrati.

Francesco Barilli è l’ispirato regista di questo “Profumo della signora in nero”, uno dei più riusciti horror (tanto “classicheggiante” quanto misconosciuto) della declinante appendice (siamo nel 1974 e il giro di boa è stato da tempo superato) di quella che fu la breve stagione d’oro tutta italiana di questo particolare genere, che racchiude il suo periodo di massimo splendore, in un arco di tempo decisamente limitato, anche se particolarmente fecondo nei risultati, soprattutto se rapportato dalla scarsità dei mezzi a disposizione. Un promettente esordio dietro la macchina da presa, il suo (Barilli era stato l’indimenticato protagonista – dieci anni prima – di “Prima della rivoluzione”, titolo fondamentale e molto discusso della evoluzione creativa Bertolucciana e nulla lasciava presagire a quei tempi questa sua specialissima predisposizione al cambiamento di ruolo) che purtroppo non avrebbe poi avuto concrete possibilità di confermare le sue indubbie qualità: erano anni quelli in cui si cominciava a respirare aria di riflusso, la “crisi” stava diventando palpabile e irreversibile (solo parzialmente arginata per molto tempo dal formidabile successo del filone degli spaghetti Western capace di creare tardive illusioni) e chi non si adeguava era irrimediabilmente perduto. Questa sua prima esperienza (uscita per altro nella torrida estate di quell’anno quasi in sordina e con scarsissimo “ritorno” sia di critica che di pubblico), rimarrà pertanto un caso quasi isolato: a lungo inoperoso dopo il successivo parziale scivolone di “Pensione Paura” del ‘78, decisamente inferiore nei risultati, riuscirà a tornare davvero dietro la macchina da presa per un altro brevissimo flash, solo agli inizi degli anni novanta per ripresentarsi invecchiato ed “esaurito” nell’inventiva, con uno dei quattro episodi del discusso e discutibile “La domenica specialmente” (noiosissimo e “inutile” racconto di quattro differenti momenti d’amore dovuto alla penna di Tonino Guerra qui davvero scarsamente creativo e stimolante) un progetto anacronistico ed oggettivamente fuori dalle sue “corde espressive” a ragione dimenticabile e dimenticato. Possiamo quindi considerare il particolare contesto “epocale” e la consueta “miopia” dei produttori la causa dell’imperdonabile spreco di un potenziale talento in pectore? Io presumo di sì, perché i presupposti c’erano tutti per scommetterci sopra e possiamo immaginare che una cinematografia più coraggiosamente matura, e soprattutto capace di assumersi il “rischio” della scommessa, avrebbe investito più concretamente su di lui proprio tenendo conto dei notevolissimi risultati raggiunti con la sua “opera prima”, nel raccontare con una classicità formale piena di “guizzi creativi” che presentava già una inusuale maturità stilistica, la storia di una nevrosi coniugata al femminile che nasconde vecchi traumi infantili (ma che riserverà un sorprendentemente grandguignolesco ribaltamento di prospettiva finale, capace di dare differente senso e dimensione interpretativa a tutti i precedenti eventi narrati) dai molti echi Polanskiani (non solo le evidenti componenti “psicotiche” o di ambientazione da Rosemary’s Baby – 1968 - e le evoluzioni “macabramente disturbate”– immaginate o reali – della follia ossessivamente persecutoria del prefinale decisamente riconducibili alla Deneuve di Repulsion -1965, ma anche per certe “anticipazioni” di atmosfere e “inquietudini” che si esemplificheranno poi in maniera più compiutamente definita, nell’”Inquilino del III piano” del ‘76 con il quale si possono riscontrare molti collegamenti “emozionali” nella progressiva disgregazione paranoica della mente “disturbata” perseguitata dalle visioni – nel film di Barilli una splendente e credibilissima Mimsy Farmer). Il gusto figurativo della scrittura è decisamente insolito e testimonia la presenza di uno sguardo capace di “fotografare” la realtà di una Roma lussureggiante e colorata, e di coniugarla senza forzature o incongruenze, con i fantasmi e le ossessioni derivanti dai traumi di una infanzia disturbata, così da immergere il racconto in una avvolgente atmosfera “evocativa” quasi fiabesca (i rimandi a quell’immaginario mondo della fantasia – qui “Alice nel paese delle meraviglie” di Carroll, per altro più volte esplicitamente citato – sono altrettante pennellate che accentuano l’eleganza “classicheggiante” dell’insieme), pregna di una angoscia esistenziale sempre più profonda che degenera gradualmente verso quella che sembra assumere, in progressione costante, i toni di una semplice e “consueta” paranoia ossessiva e delirante, nonostante sibillini “indizi” e avvertimenti disseminati con cura nel contesto narrativo che indicano differenti direzioni interpretative. Barilli riesce a dosare bene gli effetti, fra illusioni persecutorie, cannibalismo e “ritualismi di magia africana”, dimostrando nel contempo di possedere una personale e originale poetica del bizzarro unita alla indispensabile carica di sottesa ironia, sempre necessaria quando si affrontano temi così orrorifici, in un crescendo parossistico che riesce a creare la giusta e angosciata sospensione dell’attesa, all’interno di un microcosmo popolato da allucinati personaggi ed altrettanto apparentemente “irreprensibili” figure. Il ribaltamento finale è poi assolutamente inaspettato, quasi agghiacciante nella sua tragicità sconvolgente (ed è sorprendente la capacità del regista di mantenere il “controllo dell’eleganza formale” anche in questo momento particolarmente disturbante che uno sguardo meno controllato, rischierebbe di far precipitare verso la deriva del ridicolo). Le musiche di un giovanissimo Nicola Piovani (allora anche “compagno di vita” della protagonista), che hanno un peso fondamentale nella struttura “visionaria” dell’opera, hanno forse qualche scivolata “a effetto”, ma risultano nel complesso funzionali e ben coordinate, capaci di coniugarsi perfettamente con l’atmosfera generale dell’opera, così come il nutrito stuolo di interpreti (soprattutto i caratteristi) con una menzione particolare per Mario Scaccia e Orazio Orlando.

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati