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L'uomo del labirinto

Regia di Donato Carrisi vedi scheda film

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La recensione su L'uomo del labirinto

di Furetto60
5 stelle

Stranissimo film tratto da un romanzo di Donato Carrisi che ne cura anche la regia. Un bel rompicapo, molto cervellotico. Ostico

 Samantha Andretti, è la tredicenne rapita e a lungo tenuta prigioniera, da un sadico pedofilo, ora improvvisamente libera ma ferita, si risveglia in una stanza d’ospedale distesa sul letto con una flebo al braccio e una gamba ingessata, non ricorda niente di sé, dovrebbe e potrebbe essere Samantha, naturalmente non è così, sarebbe troppo facile. Accanto a lei, il dottor Green, un profiler fuori dal comune. Green infatti non va a caccia di criminali nel mondo, bensì scandagliando la mente delle vittime, perlomeno così dice e cosi pare. Bruno Genko alias Toni Servillo, è un malconcio investigatore, alcolista e tabagista incallito, un tipo hardboiled che sbarca il lunario, recuperando crediti, ormai sconfitto dalla vita e da un male incurabile, che gli lascia poco tempo da vivere, ha deciso di tornare ad indagare su questo vecchio caso irrisolto
Nel progresso della trama scopriremo che in realtà le storie sono due e camminano in parallelo, per convergere forse solo alla fine. Con “L’uomo del labirinto” Carrisi che è l’autore oltre che il regista, si trastulla in un gioco di incastri, tipo scatole cinesi o forse più simile al cubo di Rubik, imbroglia maledettamente le cose, tipo le tre carte di napoletana memoria e, man mano che la trama si srotola, semina dettagli che dovrebbero fornire elementi utili a capire, ma che invece sono del tutto fuorvianti. Basandosi su una sceneggiatura, che è un tenero eufemismo definire contorta, infonde nello spettatore una fastidiosa sensazione di disorientamento stuporoso. Carrisi attinge ancora una volta a piene mani a tutto il cinema (e la serialità televisiva) di genere, con riferimenti e allusioni, che vanno dall’horror italiano ad Alice nel paese delle meraviglie, passando per “Donnie Darko” fino a “Saw”. Un po’ Fincher, un po’ Lynch un po' Whan. Costruisce una prigione sotterranea, un labirinto fatto di “pareti vive”, corridoi in cui la luce si accende al passaggio della prigioniera e le porte si schiudono per dare “premi”. Parallelamente ne costruisce un altro in superficie, facendo in modo che poi questi si incrocino e si moltiplichino. Una sceneggiatura che è un ginepraio, fatta di specchi e fili da ricollegare, che però alle volte sembra inciampare su stessa. Le buone
musiche di Vito Lo Re, accompagnano ogni sequenza. Dal romanzo allo schermo, nelle storie di Carrisi ci si smarrisce, francamente troppo, si immerge lo spettatore in una fitta nebbia, un dedalo dove tutto è fumoso, incomprensibile, lambiccato e cervellotico; le linee narrative si intersecano, si frammentano, in una girandola di ipotesi, dubbi, suggestioni, una scommessa che vince solo chi ha un Q.I. superiore a 160, dopo aver compiuto un titanico sforzo cerebrale ; difficile capire chi e quando ha commesso il crimine. E l’ufficio delle persone scomparse, appare come un purgatorio Dantesco, che non a caso si chiama “Limbo”. La radio trasmette in sottofondo, il credo dei “pentecostali”, gli ascoltatori vengono messi in guardia sulla fine del mondo. Il protagonista, ma è lui il protagonista? segue un percorso, in questa realtà o forse in un’altra dimensione. Il film è molto ambizioso, direi anche pretenzioso. Thriller d’atmosfera, ma anche rebus sibillino, che danza sul baratro del razionale, splafona il limite della logica, con un finale apertissimo. Film criptico, ermetico e tenebroso. Le inquadrature dall’alto, si alternano a primissimi piani. Pellicola strana e coriacea, come la precedente, ridondante e molto compiaciuta, nell’esercizio di spiazzare lo spettatore, propinando un colpo di scena finale, che scopre una sorta di doppia chiave di lettura a tutta la vicenda.

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