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First Cow

Regia di Kelly Reichardt vedi scheda film

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La recensione su First Cow

di Peppe Comune
8 stelle

Oregon, inizi del XIX secolo, durante gli albori dello spirito pioneristico. Otis "Cookie" Figowitz (John Magaro) è un cuoco che si è unito ad un gruppo di cacciatori di pellicce in cerca di miglior fortuna. Viene trattato quasi come uno schiavo e decide perciò di abbandonare la carovana. Il caso lo fa incontrare con King-Lu (Orion Lee), un cinese arrivato fino in America per seguire le sue velleità imprenditoriali. I due diventano subito amici ed insieme si mettono a progettare il modo migliore per cominciare a fare soldi e spostarsi verso ovest. Scorgono un’opportunità nella “prima mucca arrivata nel territorio dell’Oregon”, di proprietà di un ricco fattore (Toby Jones), un londinese che ha urgente bisogno di latte per il suo amato the. La mucca arriva su una zattera e pascola da sola in prati sterminati. I due amici decidono di mungere segretamente la mucca e usare il latte per fare dei dolci da vendere sul mercato locale. Gli affari vanno abbastanza bene, i dolci piacciono e sono molto richiesti. Anche il proprietario terriero li gradisce molto, sembrano fargli sentire “il sapore londinese di South Kensington”. Ma non sa da dove proviene il latte, finché non scopre l’inganno architettato dai due poveri amici.

 

John Magaro, Orion Lee

First Cow (2019): John Magaro, Orion Lee

 

 

“First Cow” della regista statunitense Kelly Reichardt è un western molto atipico che ci racconta del mito della frontiera attraverso l’emergere discreto di un’amicizia per la vita, che prende corpo dal diverso modo con cui i protagonisti si rapportano con il “sogno americano” e si rinsalda nella maturazione del comune interesse a non rimanere da soli. Si resta insieme in un mondo che sta cambiando radicalmente i suoi connotati e che all’improvviso ha scoperto una terra promessa che si è messa ad offrire speranze a buon mercato. Come insieme si pensa di restare uniti per non disperdere il senso dell’umano nella corsa forsennata al successo.

Sceneggiato insieme al fidato collaboratore Jonathan Raymond (autore del romanzo omonimo da cui è tratto il film), “First Cow” è incentrato intorno all’idea che ogni storia che merita di essere raccontata deve partire dal suo inizio e da tutte le cause originarie che l’hanno prodotto. Il film si apre con una grande nave mercantile che gradualmente entra e si impossessa dell’inquadratura, poi vediamo una ragazza e un cane (una coppia quasi sempre presente nei film della Reichardt) scoprire delle ossa umane sulla riva di un fiume. Scavando per bene tutto intorno emergono gli scheletri di due corpi, posti l’uno accanto all’altro. Lo stupore della ragazza retrocede il filma a oltre due secoli di distanza, all’inizio della scoperta di un territorio ricco di speranze e dell’amicizia tra due persone appartenenti a culture lontanissime. L’idea dell’inizio appunto, che permea il film in maniera discreta, facendo della “prima mucca arrivata sul suolo americano”, su una zattera che ha attraversato quello stesso fiume che apre il film,il simbolo di ogni forma possibile di ascesi sociale : per il ricco che cerca di accumulare altra ricchezza e per il povero che cerca di riscattarsi dalla miseria. Da questo contrasto sociale trae origine lo sviluppo della storia, che non manca di vestire di ilarità il dispiegarsi di alcune vicende importanti. Diventa così l’inganno il motore di tutto, perché “i poveri hanno bisogno di capitali per iniziare qualcosa, di miracoli, o un crimine”, dice King-Lu. Un inganno che questa volta può servire a ribaltare per pochi momenti l’originario rapporto di forza, trasformare due male in arnese in novelli Robin Hood, che rubano ai ricchi per prendersi quella quota di opportunità che gli spetterebbe di diritto. Giusto il tempo per vedere l’effetto che fa, fino a quando il vento della speranza non li spingerà verso ovest. A muoversi ancora, a muoversi sempre. Perché, come dice sempre King-Lu, “gli uomini come noi devono farsi strada per proprio conto. Per noi, non ci sono forme impero o colori alla moda. Si deve prendere ciò che si può quando le cose vanno bene”.

Come già successo con “Meek’s Cutoff”, Kelly Reichardt si è mostrata capace di parlare dell’identità del paese mettendo in evidenza il suo carattere più spiccatamente umanista, quello che nasce dalla relazione indissolubile tra la geografia dei luoghi e la naturale attitudine delle persone a farsene partecipi. La regia è come al solito elegante e minimalista, sempre poggiata sulla somma di tanti piccoli fatti che tutti insieme danno respiro al senso delle cose. I fatti eclatanti sono quelli che appaiono in superficie, bisogna scavare per giungere all’origine della sua importanza e dare ad ogni storia il diritto di essere raccontata (incipit docet).

Le vaste terre dell’Oregon chiedono solo di essere esplorate, ci sono strade e risorse che conducono tutte a quei luoghi che “l’uomo nuovo” chiama opportunità. È con questo stato dell’animo che Cookie e King-Lu penetrano l’essenza dello spirito pionieristico, con quella propensione molto umana nel dare uno sviluppo giustificato alla fatica dei propri sforzi e una forma concreta ai loro sogni migliori. Ma la Reichardt ci presenta questo aspetto, non come il frutto necessario dello scontro famelico tra opposti individualismi, ma attraverso l’etica solidaristica dell’incontro. Si può essere ossessionati dalla voglia di far fortuna, ma senza diventare schiavi della logica del profitto da perseguire ad ogni costo. I due amici rappresentano l’altra faccia del “pionierismo”, meno selvaggio e più riflessivo, meno istintivo e più furbo, meno predatorio rispetto alle risorse offerte dalla terra e più incline a prendersi solo il necessario dei doni offerti dalla natura. Si mettono a sfidare i giganti, sperando che il gioco baro intrapreso con la sorte duri almeno il tempo per potersi permettere altri tentativi.

Cookie e King-Lu stanno dentro il cuore pulsante del “mito della frontiera”, e la loro inconsapevole spregiudicatezza, il loro avventurismo in erba, il modo del tutto istintivo di voler trovare un proprio “posto al sole”, non li rende delle pedine meno importanti nell’immensa scacchiera della storia del mondo.

Basta questo per rendere “First Cow” un film sull’origine del capitalismo, un’opera che, oltre a incentrarsi sull’elegia di un’amicizia, si configura come una critica fatta a bassa intensità alle sue dinamiche monopolistiche. L’autrice nordamericana sembra volerci dire che il “mercato globale” è nell’ordine delle cose, ma rimane un fatto virtuoso se da più preminenza all’incontro tra le persone che all’impero delle merci, se si fonda più sul soddisfacimento dei bisogni reali di ognuno che sull’individuale ambizione a collezionare ricchezza. Ecco, il film mette in relazione due inizi : quello di chi cerca di emanciparsi dalla mera sopravvivenza con quello permeato dalla cultura dell’accumulo. E la Reichardt si insinua in questo contrasto filologico in maniera garbata, senza mancare di prendere posizione, ma lasciando che a prevalere, non sia la verbosità della morale spicciola o lo stereotipo preconfezionato mutuato dalla precettistica “progressista”, ma la levità di una regia che sa penetrare con delicata accortezza il senso profondo della storia.                

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