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23 passi dal delitto

Regia di Henry Hathaway vedi scheda film

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La recensione su 23 passi dal delitto

di precint13
8 stelle

A dispetto del discutibile titolo italiano e del riferimento holmesiano di quello originale, 23 passi dal delitto non è un giallo tradizionale. O, meglio, non è "solo" un giallo tradizionale.

Vi si racconta di un drammaturgo americano di successo, Philip Hannon (cieco, ma non dalla nascita), trapiantato a Londra, dove si replica una sua commedia di successo. Etilista umorale, ascolta per caso in un bar una conversazione che potrebbe preludere a qualcosa di losco. Con l'aiuto del maggiordomo e dell'amica Jean, di lui innamorata, inizia una serrata indagine.

Ai cinefili di bocca buona, 23 passi dal delitto non potrà che richiamare alla mente alcuni titoli di merito successivi. Scandito con pervicacia ossessiva dall'avvolgersi e dallo svolgersi (quasi ritmante) dei nastri su cui il protagonista ha registrato le battute del proprio spettacolo e del colloquio carpito nel bar, sembra quasi un preludio a La conversazione di Coppola, capolavoro inarrivato. Ma si potrebbero citare anche Blow-up e, ovviamente, l'ultra-derivativo (ma pur sempre bellissimo) Blow Out di De Palma. Persino Le vite degli altri.
E non sarebbe un caso, perché lo scacco del film di Hathaway (maestro, più che incompreso, poco "citato") è proprio quello del suono, della parola e del rumore che diventano vista. E' un trasmigrare di sensi, trasfondersi l'uno nell'altro (una metafora del cinema). La parola, ascoltata e mai del tutto afferrata, diventa il timone di storie abbandonate al fuori campo, storie inventate, storie che si vorrebbero vedere ma non si possono visualizzare. E non si possono visualizzare perché, in un certo qual modo, la vista non vede. Non può farlo. Perché l'olfatto e l'udito vedono meglio, vedono altro, spalancano altri occhi. Ma non vedono tutto. Philip Hannon/Van Johnson, grazie alla (o a causa della) sua cecità ha accesso ad altre visioni, che rimangono comunque incomplete, aribitrarie, tradite dal soggetto che, credendo di vedere, non vede. Quasi tutta la filmografia di Stanley Kubrick ha provato a dare una nuova dimensione all'occhio, a far rinascere una nuova vista come il feto che galleggia nello spazio nel finale di 2001, fino a dichiararcelo nel suo ultimo titolo: Eyes Wide (Are Eyes) Shut. Persino nel finale (che può far tornare alla mente quello, per certi versi analogo, de La finestra sul cortile, di due anni precedente), il colpevole commette un errore di vista ("perde di vista" letteralmente).

Film stupefacentemente bello, 23 passi dal delitto, tornando al punto di partenza, non è quindi immediatamente sdoganabile come un giallo classico (anche se agli amanti del genere magari rifiorirà in testa Un delitto avrà luogo di Agatha Christie). Preso a sé stante come puro tessuto narrativo, pura fabula, potrà apparire anche puerile (perché Hannon commette un errore così stupido come mettere quell'inserzione? - Perché vede altro, si potrebbe rispondere, con il senno di poi), un po' facilone e superficiale (l'intenso Johnson che si muove con un po' troppa disinvoltura per il suo handicap).
Ma anche in questo caso, come sempre, è un problema di vista.

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