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Rambo: Last Blood

Regia di Adrian Grunberg vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Rambo: Last Blood

di alan smithee
4 stelle

C'è la famiglia dei legami di sangue. E quella dei sentimenti.

John Rambo, ex marine incompreso e mai valorizzato quanto meritasse, tanto da indurlo a costruirsi la fama di eroe solitario e perennemente incompreso, non ha mai potuto coltivare rapporti con il primo di questi nuclei, di cui poco o nulla si è mai potuto sapere, e pertanto - giunto alle soglie di una vecchiaia che ce lo fa ritrovare in qualità di quieto allevatore ed ammaestratore di cavalli in un ameno ranch in Arizona - ha deciso di coltivarsi una appagante famiglia degli affetti.

Nel caso specifico essa è rappresentata dalla affezionata governante Maria, e dalla nipote di lei, Gabrielle, giovane bella ed intelligente, orfana di madre, ma protesa a trovare notizie del padre, tipo losco a detta della nonna, che l'avrebbe abbandonata ancora in fasce, facendo ritorno nel non lontano Messico.

Quando una maliziosa corrispondente della ragazza la persuade a raggiungerla presso un vasto aggregato popolare urbano nel vicino stato confinante, per fornirle informazioni basilari sul padre, la ragazza, nonostante la contrarietà della nonna e di John, decide di raggiungerla, non sapendo che la pseudo amica in realtà, oltre a metterla sulle tracce del padre, l'ha pure venduta ad una banda di pericolosi trafficanti intenzionati a sfruttarla nel più turpe dei modi.

A Rambo non resterà altro che intervenire, per recarsi a salvarla. La situazione si metterà tuttavia male per l'ex marine, che, picchiato a sangue dagli scagnozzi titolari di quella turpe tratta di donne, verrà salvato in extremis da una intrepida giornalista freelance, impegnata a raccogliere elementi per incastrare quella banda di trafficanti di anime. Ripresa in mano la situazione, Rambo riuscirà a portare via la nipote, ma quando ormai per lei sarà troppo tardi.

A quel punto per l'eroe, che in tutti quegli anni era riuscito a tenere a bada la sua collera con un ideale "tappo" mentale che tenesse a freno la sua ira, è tornato il momento di organizzare la propria sana, e a suo modo di vedere  pienamente giustificata vendetta.

Sylvester Stallone non cambierà mai, inutile sperare in saggezze tardive legate all'incalzare dell'età: per lui i cattivi sono erbacce da estirpare con tenacia; e, nel caso specifico, i messicani sono tutti brutti e cattivi secondo una concezione puerile ed elementare che trova entusiasmi a sottofondo repubblicano a partire dall'attuale paffuto, biondo, inverosimile, sconcertante presidente americano in carica.

Il filmaccio, che gode di un valido incipit, pur assurdo ed improbabile, ma godibilissimo, con il nostro imbronciato ranger a cavallo impegnato a salvare alcuni incauti turisti dalla furia della natura sotto un diluvio ad alta quota (una scena rocambolesca degna del miglior Cliffhanger!), procede poi lungo la sua puerile svolta narrativa, unicamente proteso a raccontare i dettagli di una nuova vendetta privata ove, ancora una volta, la sete di violenza e il dettaglio compiaciuto per la soluzione sanguinosa e letale, finiscono per restare gli unici rimedi per soddisfare quella sete di giustizia che i drammatici eventi hanno reso ormai irripristinabile.

Violenza e vendetta come unica possibilità di raggiungere un grado di soddisfazione dopo che il torto subito si è rivelato irreversibile, sono sempre state le coordinate ufficiali che, nella carriera di Stallone, si sono ripetute come costanti inflessibili in modo inversamente proporzionale al grado di qualità del film in questione.

Qui le due note tematiche sono martellanti e cadenzate in modo costante e sin ottuso.

Il fatto poi che il protagonista viva in un ranch a prima vista idilliaco - ma sotto sotto (nel vero senso del termine!) circondato da un tunnel (c'è da rabbrividire solo al pensiero del lavoro necessario per realizzare un'opera simile ad una piccola "Linea Maginot" che solo un folle potrebbe anche solo concepire idealmente) privato "colmi di armi micidiali e trabocchetti contro un nemico che quasi si spera riesca a trovare il coraggio di materializzarsi dinanzi all'uscio - è l'elemento distintivo di una instabilità mentale e di una barbarie che per una grande maggioranza di pensiero tipicamente a stelle e strisce viene considerata come una cura ideale contro il dilagare dell'invasione nemica oltreconfine. Una greve dottrina di pensiero che non può che lasciare interdetti e senza parole.

Oltre alla greve filosofia di vita del granitico protagonista poi, non c'è altro se non due fratelli ottusamente cattivi, oltre all'inevitabile manipolo di loro seguaci che cadono affettati come birilli sanguinolenti; e a una Paz Vega un po' sciupata e molto sprecata, che appare per qualche scena, per poi scomparire così come è apparsa.

Se si tralascia l'inquietante messaggio stalloniano/trumpesco che sta alla base della vendicativa trama, il film ha momenti scult in sé quasi godibili, come la fine pulp in cui incorre uno dei due fratelli a capo all'organizzazione, con una parte del corpo ritrovata nel suo lussuoso letto residenziale, e l'altra estremità gettata in mezzo ad un rettilineo sulla strada di confine, dal pick-up in corsa del nostro giustiziere.  

Stallone è così.... inguaribile, incorreggibile, e forse per questo impossibile, nonostante la grevità e la gravità del messaggio di cui si rende portavoce, da respingere completamente.

Aspettiamoci tuttavia ancor di peggio con il prosieguo di una vecchiaia ben portata soprattutto dal punto di vista fisico-muscolare, con l'inevitabile prodigarsi infinito delle sue fortunate, interminabili saghe action.

 

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