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C'è tempo

Regia di Walter Veltroni vedi scheda film

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La recensione su C'è tempo

di MarioC
4 stelle

C'è tempo, Walter. C'è tempo perché tu possa realizzare un film meno sbrindellato

Cosa vuoi dire a Walter Veltroni, reuccio del buonismo salottiero, ultimo e un po’ consunto baluardo di una sinistra ancora in grado di coinvolgere le masse (che poi queste masse fossero sostanzialmente composte da borghesi barricaderos e non da proletari incazzati è in fondo un dettaglio, per tacere delle inesorabili mutazioni massificanti della classe operaia, ma qui il discorso prenderebbe altre strade…)? Cosa vuoi dire al suo citazionismo spinto, esagerato, bulimico, necessario anche dove reale necessità non c’è, confuso, loquace, pasticciato? Cosa vuoi dire al suo album di figurine (che una volta L’Unità regalava, e non era un’idea disprezzabile, siamo onesti), alla sua galleria di doppi, controfigure, pupi (non) siciliani, maschere di wannabies pirandelliani che si mettono in viaggio, andando a completare, enfiare, gonfiare un soggetto smunto e bisognoso di iniezioni ricostituenti? Nulla, non puoi dire nulla se non che tutto questo non basta a costruire un film. Non bastano le buone intenzioni, una scrittura anche accurata, l’ambientazione on the road (quante ne abbiamo viste di coppie adulti/bambini, da Verdone ad Eastwood, quanto sono ormai risaputi i meccanismi di lento disvelamento con agnizione di reciproca osmosi – io sarò un po’ meno bambino, ma tu devi essere un po’ più bambino; ecco: grazie, Walter-?). Non basta il solito Stefano Fresi, sempre più ottimo malincomico ma sempre più a rischio di restare imprigionato nella gabbia espressiva che hanno iniziato a costruirgli intorno. Non basta la leggiadra Simona Molinari, che non recita ma squaderna un riposante sex-appeal che sarebbe piaciuto anche al Fanfani antidivorzista. Non basta il richiamo urlato al valore della memoria, al tempo, sin dal titolo (e però confessiamolo spudoratamente: quando parte Umberto Tozzi con Stella stai e l’inquadratura scivola fugace sulla locandina in ferro dei gelati estivi anni ’80, per noi ex giovani è davvero un colpo al cuore, mortaccidewalter): non bastano, infine, le prove d’amore per il cinema, che sono sempre cosa buona e giusta salvo quando altri ce ne facciano flebo dall’alto e pretendano che anche noi si sia stati ragazzini rapiti da Antoine Doinel/Jean-Pierre Léaud in luogo di Edwige Fenech.

Insomma, Walter: la carineria un po’ zuccherosa la possiamo anche accettare, possiamo lasciarci cullare dal disimpegno leggero e lievemente malinconico. Possiamo chiudere un occhio su quel sentore di già visto e di già sentito, sul fatto che di ogni scena lo spettatore medio possa comodamente intuire lo sviluppo, possiamo anche noi ammirare arcobaleni e farne necessariamente poesia. Però la troppa carne al fuoco è un male, sappilo. Da aggiungere al Pantheon: Jean-Pierre Léaud, beccato a Parigi, da solo in un bistrot, in quel bistrot (la sospensione dell’incredulità, la dimensione favolistica, ok), Olmo Dalcò (altro film capolavoro, ma citazione che flirta con la disfunzionalità), il cinema di Fellini a Rimini (perché il viaggio on the road deve condurre proprio a Rimini? Ma per completare l’album delle figurine, brutti miscredenti e San Tommaso di risulta), l’accenno alla violenza sui minori (davvero terribile, una cosa buttata lì senza se e senza ma, gratuitamente), la (legittima) presa per il culo dei nuovi ricchi e volgari, quelli che vanno al Louvre per vedere la Nike (detto come la famosa calzatura) di Samotracia. Troppa roba, una sceneggiatura che germoglia e si disperde, anche e soprattutto perché, si ribadisce, la fine è nota. Ed è il consueto inno all’ottimismo della volontà e qui, stavolta, anche un po’ della ragione (ahinoi, gravissima lacuna la mancata citazione, cfr Baci Perugina, il cuore ha ragioni che la ragione non conosce. Ma a ben vedere la frase c’è, c’è tutta. Implicita). A bilanciare, due momenti di apprezzabile autoironia, la gradevole presa di distanza da certi snobismi (veltronismi?) della gente di sinistra: l’anche no quale intercalare di chi si senta sempre appena un po’ più in alto del senso comune; l’ottima tirata (ottima perché davvero salace e senza volgarità, senza peloso paternalismo) sulla fungibilità dei cinesi, sulla loro simpatica e malandrina fuggevolezza, su una intercambiabilità (di ruoli, funzioni, professioni) che può dare vertigine.

 

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