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Ben is Back

Regia di Peter Hedges vedi scheda film

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La recensione su Ben is Back

di alan smithee
4 stelle

FESTA DEL CINEMA DI ROMA - ALICE NELLA CITTA'

E' tornato. Alla vigilia di Natale, concitata e frenetica come al solito, Ben si ripresenta a casa, accolto dallo sguardo allibito, ma insieme incredulo, di una madre in lacrime, interdetta ed indecisa su come prenderla, ma nell'intimo felice e frastornata.

Ben è il figlio maggiore, e tossicodipendente, di Holly Burns, bella quarantacinquenne madre di quattro figli: i primi due nati da un matrimonio ormai finito da tempo, gli ultimi due, ancora bambini, concepiti dal secondo marito, un uomo di colore agiato che l'ha aiutata non poco dandole adeguato sostegno economico e morale nell'affrontare le terribili conseguenze che la droga ha comportato sulle azioni del figlio.

Il ritorno del figliol prodigo porterà con sé il devasto che la sorella di costui, fredda ed impassibile, ma non senza le proprie ragioni, prevede ed ha già vissuto in occasione delle feste di Natale degli anni precedenti. 

Il film si posiziona sui due personaggi di madre e figlio, con una madre tenace e sofferente, ma mai vinta, che tallona il figlio ad ogni passo per scongiurare inganni e sotterfugi che i tossicodipendenti sono soliti inscenare per riuscire a procurarsi la tanto desiderata dose che li fa tornare all'interno del loro mortale girone infernale. 

Ed il rapporto tenace, sofferto, manesco, ma di fatto sincero e vitale che si crea tra i due, è l'aspetto più riuscito del film incalzante di Peter Hedges, che trova nella star Julia Roberts (bella ed efficace, ma fisicamente consunta e tirata da far quasi impressione) e nella presenza del figlio, l'ottimo  Lucas Hedges ormai quasi in odore di divismo, le sue più valide, concrete ragioni d'essere.

Peccato che lo script si intestardisca sul risvolto thriller, che se da una parte giustifica il connubio solidale madre e figlio, dall'altro rischia di forzare la mano di una storia che si sforza di mantenere un certo realismo, ma sbrocca pedantemente in risvolti da suspence impensabili nel contesto in questione: la ricerca del cagnetto rapito appare un presupposto assai risibile, così come l'intervento da FBI della sorella maggiore nel guidare la madre alla ricerca del figlio e fratello attraverso la localizzazione dei cellulari; per non parlare della disponibilità a comando dei centri d'ascolto con le solite sedute attorno ad un cerchio di sedie, decisamente imbarazzanti e viste davvero  in troppe occasioni per essere ancora accettabili: in tutti i casi deborda senza ritegno l'emblema così spudoratamente americano fatto di luoghi comuni abusati, regno incontrastato della famiglia perfetta e felice che si fa scudo entro di sé e riesce a vincere le proprie debolezze con l'unione.

Circostanze qui pedantemente appesantite dalla necessità, piuttosto gratuita e forzata, di voler ostentare una politicamente corretta, ma anche assai stucchevole, perfezione multirazziale ove il capo famiglia di colore è l'uomo realizzato e fautore del sogno americano, laddove quello bianco ha fallito meritando l'oblio.

Era necessario? Proprio per nulla, a mio avviso, come non giova al film quella seconda, spudorata parte concitata e noir con madre e figlio a caccia dei rapitori del cane, e poi all'inseguimento uno dell'altro.

Risultati ostentati della inguaribile incapacità di certi autori di script di saper mediare e contenere certi slanci narrativi entro contesti se non credibili, almeno possibili o minimamente plausibili. 

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