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Sulla mia pelle

Regia di Alessio Cremonini vedi scheda film

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La recensione su Sulla mia pelle

di Peppe Comune
8 stelle

Il 15 ottobre del 2009 Stefano Cucchi era in auto con un suo amico quando venne avvicinato da una pattuglia di carabinieri. Durante la perquisizione di rito che ne seguì, gli trovarono addosso 13 dosi ben confezionate di hashish. Venne condotto nel carcere di Regina Coeli e trattenuto in custodia cautelare con l’accusa di spaccio di sostanze stupefacenti. Cosa che venne confermata il giorno dopo dal tribunale nel corso del processo per direttissima. Sette giorni dopo, il 22 ottobre, Stefano Cucchi venne trovato morto nel letto d’ospedale dove era stato portato perché un lancinante dolore alla schiena non gli dava tregua. A causa di lungaggini e incomprensioni burocratiche varie, i familiari del ragazzo non poterono mai fargli visita durante la detenzione. Lo videro solo quando era un corpo privo di vita, un cadavere ricoperto di lividi lungo tutto il corpo. Qualcosa era successo in quei sette giorni, qualcosa di terribile che un paese civile non dovrebbe mai consentire e che dovrebbe sempre condannare. Una storia diversa e anche più grave di quella di un ex eroinomane con all’attivo qualche precedente penale non legato alla droga. Un ragazzo (come tanti) che stava cercando di rifarsi una vita lavorando come geometra nell’impresa del padre ma che nella cui casa i genitori trovarono (e subito denunciarono) un chilogrammo di hashish e centotrenta grammi di cocaina. Da quel giorno nell’obitorio dell’ospedale, di fronte al corpo tumefatto del ragazzo, per i familiari di Stefano Cucchi partì una battaglia giudiziaria che il 10 luglio del 2017 ha portato al rinvio a giudizio di tre carabinieri per omicidio preterintenzionale e altri due per calunnia e falso in atto d’ufficio. Nello stesso anno, Ilaria, Giovanni e Rita Cucchi hanno fondato una onlus a lui intitolata “per difendere i diritti umani e civili del cittadino”. Una battaglia per la verità che va continuata e che deve andare oltre il loro particolare stato emotivo. Perché Stefano Cucchi fu “solo” il centoquarantottesimo morto in carcere su un totale di 172 decessi. Nel solo 2009.

 

Alessandro Borghi

Sulla mia pelle (2018): Alessandro Borghi

 

 

“Sulla mia pelle” di Alessio Cremonini ci porta dentro il calvario esistenziale di Stefano Cucchi facendone emergere tutti gli effetti disturbanti che vuole suscitare. Un film che intende scuotere le coscienze partendo dal concentrarsi quasi esclusivamente sulla lenta e dolorosa consumazione di una vita. In una maniera cruda e diretta, senza mediazioni di sorta, narrando solamente, producendo né vinti né vincitori. Solo una storia vera da cui poter scorgere importanti implicazioni sociali.

Perchè ritengo che “Sulla mia pelle” ha la capacità di andare oltre i fatti che racconta, perché porre i riflettori sulla triste vicenda di Stefano Cucchi può aiutare a far riflettere sulle tanti morti fantasma che popolano in lungo e in largo il nostro paese, morti che non hanno avuto la possibilità di far sentire postuma la loro voce, di emergere con tanta forza civile e copertura mediatica, di farsi portavoce di una denuncia capace di rompere la cappa di silenzio cui tutte sono opportunisticamente ridotte. Le morti nelle carceri, le morti “bianche” sul lavoro e quelle prodotte dall’assenza di lavoro, le morti in mare di chi fugge dalle miserie più nere, le morti di cancro nei territori infettati dai veleni di ogni tipo, le morti per inedia. Tutte morti silenti che non fanno rumore finchè la consistenza dei numeri non le riconducono alla loro tragica evidenza e in relazione diretta con un sistema di cose che tende a far pagare sempre il prezzo più alto a chi si trova nelle posizioni sociali più deboli. La storia di Stefano Cucchi può aiutarci a ricordare che tutte quelle morti meritano di essere ricordate, che ogni singola vittima dovrebbe esigere la sua giustizia. Seppure avvengono in forme, modalità e in tempi e luoghi diversi, tutte quante hanno in comune il fatto di essere il prodotto di gesti di viltà più meno importanti. La violenza di chi esercita la sua posizione di potere contro chi è posto anche solo un gradino sotto ; l’ignavia di chi sa prendere solo posizioni di comodo ; l’indolenza di chi passa sempre agli altri le “patate bollenti” ; l’indifferenza di chi si volta sempre dall’altra parte ; l’ipocrisia di chi nasconde sempre la polvere sotto al tappeto ; l’inettitudine di chi svolge un lavoro senza rispettarne i valori deontologici ; l’impunità di chi è fedele allo spirito di corpo ; la mediocrità arrogante di chi fa il forte con i deboli ed è debole con i forti ; il pressapochismo dei furbi per mestiere. Ecco, è la somma algebrica di tutti questi atteggiamenti regolarizzatisi nelle ordinarie abitudini di ogni singolo cittadino a rendere meno civile un paese (qualsiasi paese), a fare delle tantissime morti inascoltate l’indispensabile corollario delle sue inefficienze strutturali. Questi atteggiamenti è come se creassero delle zone ombrose affrancate dal rispetto delle leggi che regolano la convivenza civile tra le persone, una specie di territori paludosi dove chi vi capita dentro rischia di andare affondo nell’indifferenza generale.

Tornando più nello specifico al film, Stefano Cucchi diventa l’emblema di un mondo che si chiude in se stesso, che ha perso la fiducia negli altri perché questi “altri” vedono e sentono solo ciò che gli conviene, solo quello che più è in linea col senso comune dominante, con l’idea pregiudizievole che si è fatti dell’altro da se : quella che più serve allo scopo di far stare ognuno a posto con la propria coscienza. Stefano Cucchi preferisce rinchiudersi in un ostinato silenzio piuttosto che dire subito di essere stato picchiato malamente. Gli viene di rispondere istintivamente alla regola omertosa della strada, quella che prescrive come regola non scritta che ogni parola di troppo può ritorcersi irreversibilmente contro di te. Lui si sente irrimediabilmente solo, condannato prima di essere stato giudicato da un tribunale, giudicato come un poco di buono senza avere alcuna possibilità di giudicare l’operato dei suoi carcerieri. Sulla sua pelle sente scorrere il peso infamante dell’impunità. Perché il dolore che si sta impossessando poco alla volta del suo corpo presenta segni troppo evidenti per non essere riconosciuto per quello che è, gli sembra il frutto di una violenza troppo ingiustificata per non trovare qualcono che voglia identificarne i materiali esecutori. Stefano Cucchi prova sulla sua pelle la pena insopportabile di un dolore inascoltato che si perde nei labirinti ovattati della sua solitudine forzata. Ecco, questa sensazione è quanto emerge dal ritratto di Stefano Cucchi, l’unica (e legittima) concessione registica che si è presa Alessio Cremonini, che per il resto cerca di aderire il più possibile alla realtà fattuale conservandone tutta la secchezza stilistica del caso. La figura di Stefano Cucchi ci viene restituita per quella che è stata, senza intraprendere pericolose derive agiografiche e senza omettere nulla delle sue debolezza di ex tossico e possibile spacciatore. La regia vive di evidenti ellissi narrative, concentrandosi solo sul periodo della detenzione senza ricercare gratuiti eccessi spettacolari. Anche il pestaggio subito dal ragazzo in caserma rimane debitamente fuori campo, di fronte ad una porta chiusa. Emblematico è anche il modo in cui viene ripreso l’atteggiamento della famiglia, stretta tra la rabbia quasi rancorosa per un figlio incapace di vincere il demone della droga e le inefficienze burocratiche di un sistema paese in grado di consegnargli solo un corpo tumefatto privo di vita. La regia di mantiene quindi equidistante, intenta solo a mostrare senza dare l’impressione di voler emettere giudizi di valore. E se capita di allinearsi emotivamente al triste destino di Stefano Cucchi è solo perché, dal resoconto esistenziale documentato dal film, sembra apparire chiaro che la morte sia stato un prezzo da pagare troppo ingiusto e sproporzionato rispetto alle sue effettive responsabilità.

È bene sottolineare l’ottima interpretazione di Alessandro Borghi (che già mi era piaciuto molto in coppia con Luca Marinelli in “Non essere cattivo” di Claudio Caligari), che rende benissimo la condizione psicologica di Stefano Cucchi, oscillante tra l’arrabbiato e il disilluso. Buone anche le interpretazioni dei familiari (Max Tortora e Malvia Marigliano sono i genitori), che quasi si autoaccusano di non aver fatto abbastanza per ascoltare in tempo le ragioni di Stefano. È soprattutto Jasmine Trinca (una Ilaria Cucchi assai somigliante) a far emergere tutto il peso di questo latente senso di colpa, una donna discreta e decisa insieme che col suo modo misurato anche di arrabbiarsi rende bene l’idea della persona che è disposta ad avviare una battaglia di verità senza confini. Film necessario, prima che bello.                

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